Se non abbiamo l’abitudine a fare delle presentazioni in pubblico (con o senza slide), tutto si traduce in una sofferenza inaudita e, per molti versi, anche alquanto frustrante. Per di più, non trovare il senso in quello che stiamo facendo o che ci è stato detto (obbligato?) di fare, provoca un calo motivazionale che finisce per contaminare anche le altre mansioni cui normalmente siamo dediti.
Qualsiasi presentazione, dall’esposizione dei dati del bilancio aziendale all’inaugurazione di un nuovo servizio, è sempre un atto di creazione. Ovvero, “costruire” qualcosa che prima non c’era.
Quando creiamo qualcosa (in questo caso, una presentazione) è come se il pensiero venisse ricablato, cioè trascinato fuori (spesso a forza) dalla sua zona di comfort. Quando succede, le idee latenti che ci ribollono in testa si manifestano e determinano, tanto o poco non ha importanza, un cambiamento della nostra vita e di quella degli altri.
La costante dell’incertezza
Non siamo mai del tutto completamente pronti. Un po’ come quando affrontavamo gli esami all’università (“Ah! Se avessi avuto due giorni in più per studiare…”), sembra sempre che ci debba essere altro da raccontare, da illustrare, da verificare.
Così, veniamo travolti dalle informazioni e, nel dubbio, cerchiamo di infilare tutto, e il contrario di tutto, in quei venti minuti che abbiamo a disposizione per fare il nostro discorso.
È importante poter disporre del maggior numero possibile di ragguagli sull’argomento che andremo a esporre, ma molto spesso il vero lavoro è quello di semplificazione. Detto altrimenti, in ogni presentazione c’è sempre qualcosa di troppo.
Nasce da qui l’insoddisfazione per il risultato che abbiamo messo insieme. Tuttavia, allo stesso tempo, un siffatto “malessere” ci dà anche la misura del nostro apprendimento all’interno di questo “nuovo mondo”. Avvertiamo che “ci manca un pezzo” o che “tutto poteva essere fatto in un altro modo”, ma ormai è tardi e dobbiamo salire su quel maledetto palco.
Ecco che, metabolizzata la situazione, ci rendiamo conto come la migliore lezione che possiamo imparare sia rappresentata dagli errori. Non solo quelli che commettiamo ogni volta che parliamo davanti a un pubblico, ma tutte le volte che smettiamo di “consumare” le routine e ci avventuriamo oltre i confini delle nostre sicurezze.
Da quelle parti c’è il senso del nostro agire nel mondo.
La paura della paura
Più che lo stato d’animo in sé, ci fa paura dover ammettere di aver paura. Allora, mentendo in primo luogo a noi stessi, fingiamo di essere imperturbabili e senza debolezze.
Ma quanta energia dobbiamo sprecare per non manifestare all’esterno che “ci tremano le gambe”? E invece, quanta di questa energia potremmo incanalare verso una gestione più efficiente della nostra presentazione?
Il trucco, se di questo si può parlare, è in primo luogo ammettere la paura a noi stessi. Quelli che ai nostri occhi ci appaiono come dei presentatori formidabili, in realtà hanno dato una voce alla loro paura, riuscendo in questo modo a “normalizzarla”. Anzi, quando avvertono la sensazione di non temere il pubblico, vanno alla ricerca di un loro timore più recondito perché solo così sono sicuri di essere presenti a loro stessi. E di fare una buona presentazione.
Il momento è adesso
Pensiamo di avere tempo. E ciò ci induce a immaginare che potrà esistere nel nostro futuro una sorta di attimo perfetto. Non è così.
Procrastinare ogni cosa per la quale non ci sentiamo pronti (e qui, a pieno titolo, ci stanno le presentazioni), ci fa rimanere dentro la ruota del criceto. Corriamo come pazzi, ma le nostre abitudini non ci fanno avanzare di un passo.
Preparare una presentazione e andare a raccontarla davanti a un pubblico, cioè fare una cosa che non abbiamo fatto mai e che non avremmo voluto fare mai, mette in moto un’infinità di risorse che non pensavamo nemmeno di avere.
La vita è così, ci offre sempre dei modi bizzarri per migliorarci e spingerci sempre un po’ più in là.
Foto di Alex Radelich