Le storie della nostra infanzia sono infarcite di sogni. Poi, a un certo punto, il “percorso di vita” di ciascuno di noi è andato a infrangersi contro le contingenze, i bivi, le ripartenze.
A parte qualche eccezione, quello che siamo oggi si colloca ben al di fuori del perimetro immaginario in cui credevamo e aspiravamo. Per riferirci a un tempo più prossimo, anche durante i mesi dell’isolamento abbiamo fantasticato un ritorno alla “normalità”, una volta “imbrigliata” la pandemia. Ma non è stato così.
C’è chi ha subito questa trasformazione come una sorta di perdita di gravità, non trovando più le stelle fisse delle routine quotidiane (casa-lavoro-casa). All’improvviso, senza movimento, si sono accorti che era sparito lo scopo del loro esistere nel mondo.
Anch’io, come credo tanti, in quel periodo ho riflettuto molto su dove stessi andando, ancorché limitato dalle mura domestiche. Un caleidoscopio di pensieri che, dopo circonvoluzioni immense, ricomponeva sempre la medesima interrogativa immagine: qual è la cifra della mia felicità?
La risposta non l’ho trovata in quei giorni, ma quando tutto era (quasi) finito e il “sistema” ha cercato di replicare nuovamente il se stesso di prima. La crepa creata dal sobbalzo temporale era impossibile da rimarginare e la mutazione ormai procedeva spedita verso un “già” futuro affascinante e, nello stesso tempo, spaventoso. Una sorta di pharmakon, dove l’umano è attratto dall’abbattimento continuo delle frontiere tecnologiche, ma vorrebbe scappare perché ha paura degli androidi da lui stesso creati e dei quali rischia di innamorarsi perdutamente nel metaverso prossimo venturo.
La mia mente si è così ritrovata dentro a una specie di post-realtà dove solo le superfici erano rimaste identiche (le strade, gli uffici, i supermercati), mentre le connessioni neuronali erano già attive da un’altra parte, in una specie di oltremondo.
È stata questa diffrazione a farmi vedere in un istante tutta la mia vita e, per la prima volta, prendere coscienza di ciò che effettivamente mi rendeva felice. Non qualcosa da trovare, ma qualcosa che possedevo già.
Così ho capito come la percezione che avevo di me stesso fosse del tutto sbagliata. Oggi, nessuno può dire di essere la stessa persona che, anni prima, ha preso la decisione che ha impresso una particolare direzione alla sua vita. Ovvero, tutte quelle circostanze in cui abbiamo scelto una scuola anziché un’altra, un lavoro specifico in luogo di un’occupazione alternativa, una persona per “tutta la vita”.
A un certo punto, ci siamo accorti di vivere in una specie di cortocircuito emotivo, ma la paura di non trovare certezze esterne, ci ha impedito di recidere molti di quei legami diventati ormai soffocanti.
Immaginare la nostra storia (chi siamo) alla stregua di una materia fissa, refrattaria a ogni cambiamento, equivale a creare una narrazione imperfetta di noi stessi, proprio perché ci illudiamo di negare il flusso di idee che incessantemente avvolge il nostro agire nel mondo.
Allora, ecco la chiave di volta. Mi concentravo esclusivamente su liste di cose da fare il cui risultato dipendeva in larga parte dagli altri. Sia chiaro, in tutti i lavori di squadra c’è sempre un elevato tasso di dipendenza fra i ruoli, ma se ognuno dei collaboratori non trova il proprio “perché” (Simon Sinek docet) si perdono il senso e lo scopo di ciò che si sta facendo. In poche parole, confondevo il movimento con l’azione.
È proprio l’azione che ci fa abbandonare la (costringente) fedeltà alle versioni di noi stessi che, almeno nella nostra testa, non esistono più da molto tempo.
Quando tutta la nostra energia la utilizziamo per tenere insieme traiettorie esistenziali che sono fuori dal nostro diretto controllo (è questa la perfezione?), rischiamo di non riconoscere più l’essenziale felicità che illumina le piccole cose di tutti i giorni.
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