Chi se lo ricorda più il cosiddetto web 1.0? Una roba di soli dieci anni fa, ma che nella nostra memoria sembra archiviato da un secolo. Da quando l’upgrade del web alla versione 2.0 ci ha fatto scoprire che possiamo diventare produttori di contenuti (di qualsiasi tipo: letterari, visivi, artistici) il mondo non è più lo stesso di prima. Ciò che un tempo per essere reso disponibile (un libro, un film, un disco) richiedeva ingenti investimenti e strutture imponenti, oggi si fa con un click. Le nuove parole magiche: condivisione e istantaneità.
Dunque, il “nuovo” web accelera e dà senso compiuto, fra le altre cose, alla tesi fondante del Cluetrain Manifesto, ovvero “I mercati sono conversazioni”. Nessuno è più (solo) uno spettatore, un consumatore, un utente finale. Tutti siamo protagonisti. Le persone sono sempre più informate e, per questo, influenti.
Il valore di un prodotto oggi è sempre più cristallizzato nelle relazioni che instaurano le persone fra loro, ma anche con il soggetto che gli propone la merce o il servizio.
Nel terzo millennio un’azienda che non dialoga, che non ascolta, che non innesca relazioni durevoli con il suo mercato di riferimento è destinata all’estinzione. È solo questione di tempo. Un tempo brevissimo, peraltro.
Per queste ragioni, tutte le roccaforti del marketing del passato (il branding, le promozioni, la fedeltà) diventano critiche se svincolate da ciò che emerge, anche spontaneamente, dai social media. Tutto quello che sta fuori dall’azienda non è più un semplice interlocutore, ma è diventato un co-protagonista delle sue stesse dinamiche produttive e strategiche.
Ancora oggi, vi fidate di più di un cartellone pubblicitario con in bella mostra un’automobile fiammante o del consiglio entusiastico del vostro amico che ha già acquistato quella stessa vettura? Mettete in rete queste informazioni, moltiplicatele per milioni di volte e il gioco è fatto.
“I Social Media non sono più una parte della nostra vita, sono qualcosa che accade ora, producono valore aggiunto per le aziende”, sostiene Sheryl Kara Sandberg, il direttore operativo di Facebook.
Appunto perché il gioco non è più un gioco, è vietata ogni forma di improvvisazione. Dando per scontato il saper scrivere facendosi (possibilmente) amica la grammatica, sono indispensabili ingenti dosi di buon gusto per tutelare il rispetto di tutte le sensibilità, notevole tempestività perché ogni minuto perso è un passo in direzione contraria al coinvolgimento e, in certi casi, alla stessa viralità del messaggio e, per finire, grandi quantità di un elemento ormai sempre più raro, mi riferisco all’arte dell’ironia di buona fattura, quella che colpisce senza ferire.
Se non abbiamo un bisogno o un interesse specifico quasi mai ci interessa sapere cosa vende un’azienda o, peggio, che ci dica che è la migliore (quante ancora esordiscono con lo stantio e falso Azienda leader di mercato…). Ma possiamo fare in modo che si instaurino delle relazioni di condivisione e, mediante queste, far sì che si parli disinteressatamente di un prodotto e di chi lo realizza. Una volta si chiamava passaparola, adesso è quello che fanno gli influencer della rete. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare è una cosa lontanissima dal social-cazzeggio della pausa pranzo.
Il mio lavoro (sì perché di lavoro si tratta) è rendere un frullatore, piuttosto che un trapano, interessante, affidabile e, perché no, figo. Se tutto questo funziona, allora succede che quel prodotto diventa credibile e le persone, come per magia, commentano, laikano, stellinano, retwittano.