Correva l’anno 2020, quello della pandemia e della radicale trasformazione del nostro modo di lavorare. In quattro e quattr’otto abbiamo mandato in soffitta modalità operative che fino a quel momento apparivano destinate all’eternità, su tutte l’ineluttabilità dello spostamento fisico casa-lavoro.
Come succede in tutte le trasformazioni repentine, qualcuno si è limitato a osservare il lampo, continuando a far finta di niente, ma quando arriverà (e arriverà) il fragore del tuono non potrà più cavarsela tappandosi le orecchie.
A prescindere dal metaverso che verrà, già adesso l’attività da remoto (riunioni, corsi, manutenzioni) è diventata quella predefinita, lasciando alle dinamiche analogiche un ruolo piuttosto residuale. Forse, è questa la ragione per cui abbiamo (ri)scoperto il piacere di una stretta di mano, di un abbraccio, di un amichevole colpetto sulla spalla quale invito per prendere un caffè. Tutte cose che erano diventate delle stanche routine quotidiane.
Si sa, il tempo è una specie di nebbia che alleggerisce i contorni senza farli scomparire del tutto. Le forme non si vedono bene, ma sono sempre lì a cercare di far parlare i colori. Così, di quel periodo ormai molto “lontano” ci restano i cambiamenti che hanno definito la nuova normalità delle relazioni personali e professionali.
“Una farfalla batte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia invece del sole”. Nel film Jurassic Park viene spiegata in questo modo l’imprevedibilità delle strutture complesse, ma soprattutto fa balzare in primo piano gli effetti a catena causati dalle variazioni all’interno di sistemi apparentemente scollegati tra loro.
Anche il mio modo di scrivere ha subito una mutazione. Me ne sono accorto recentemente, quando l’ibrido si è manifestato dentro i miei apparati cognitivi. Non ricordo esattamente il sogno, probabilmente vecchio di un secolo anche lui, ma sono perfettamente in grado di percepirne gli effetti.
Scrivo quello che mi piace scrivere. Per maggior precisione, vanno bene le tecniche e le teorie, ma la mia scuola di formazione continua sono le persone. Perché fanno ciò che fanno e come lo fanno, è diventato il mio nuovo paesaggio di senso. Una curvatura del pensiero che mi obbliga a vedere il tocco umano anche dove apparentemente sembra non esserci.
In altre parole, scrivo in maniera diversa. All’epoca del lockdown, come tutti, ho dovuto cimentarmi anch’io nell’uscita dalla zona di comfort. Nuovi tempi sempre più in contrasto con quelli della città, nuovi spazi che, sebbene fossero conosciuti, acquisivano un’aura non più solo casalinga. Il rifugio per antonomasia era diventato all’improvviso un limite invalicabile nella sua frontiera interna-esterna.
Ne è scaturita un’altra scrittura, probabilmente grazie al fatto che ho sperimentato cose che nulla avevano a che fare con la scrittura. Mi sono dedicato molto intensamente a due passioni giovanili: l’acquerello e gli scacchi.
In un certo senso sono andato ad allenare aree cerebrali normalmente poco sollecitate, come se un giocatore di tennis si mettesse a fare alpinismo.
Magari è proprio la conferma dell’effetto farfalla se quelle deviazioni dallo status quo hanno prodotto in me un abbandono della scrittura “taglia unica”, ovvero quella che va bene per tutti.
Ogni volta che mi metto a scrivere, il primo pensiero va a come risuoneranno le parole nella testa di quella persona che immagino. È come cercare di leggere un libro senza aprirlo, è come sentire dentro di me già l’effetto della pennellata o l’esito di una mossa.
Foto di Natalia Trofimova