Siamo maestri nel dispensare consigli (“Devi fare così…”, “Devi dire questo…”, “Se fossi in te…”), per poi diventare delle schiappe assolute quando gli stessi ostacoli li abbiamo di fronte noi.
Tutte le situazioni altrui, anche le più complicate, ci sembrano “banali”, o comunque perfettamente gestibili. Sicuramente, quando non siamo coinvolti direttamente ci viene più facile trovare la via d’uscita (a volte, anche più di una). È un po’ come se osservassimo i guai degli altri stando sopra il labirinto, mentre quando sono esclusivamente fatti nostri cominciamo a girovagare per tentativi all’interno dell’intricato dedalo delle soluzioni.
Una situazione tipica è quella che si verifica durante i colloqui di lavoro, quando ci viene chiesto di descriverci. Quasi si trattasse di un riflesso pavloviano, la fatidica domanda “Ci parli di lei” fa sì che la nostra faccia si tramuti istantaneamente nell’espressione che fa la mucca quando vede passare il treno.
Superato il primo momento di buio assoluto (a parecchie persone la lampadina rimane spenta per tutto il tempo), cominciamo a biascicare frasi sconnesse prive di soggetto e, in taluni casi, di verbo. Ne scaturiscono cose del tipo “Liceo, poi laurea triennale, 7 anni di esperienza…” che fanno scendere subito un gelo siderale nella stanza.
Ora, va detto che anche la definizione di risorse umane concorre non poco a raffreddare tutto il contesto. Dentro quell’etichetta (che, peraltro, continuiamo pericolosamente a dare per scontata) si è cristallizzata una sorta di meccanicità nel rapporto fra chi offre lavoro e chi, dall’altra parte, lo cerca. Una risorsa, per definizione aziendale, è contabilmente uno strumento disponibile che ha dei costi operativi comprendenti i relativi ammortamenti che ne permettono il reintegro una volta giunto alla fine del suo ciclo produttivo.
Secondo questa logica, una persona (di questo stiamo parlando) viene contemplata al pari di un tornio, di una pressa, di un computer. Ovvero, risorse prive della componente emotiva e spirituale.
Dove voglio andare a parare? Siccome sono sempre le parole a dare una forma al mondo, sarebbe davvero rivoluzionario sostituire “risorse” con il più umano “relazioni” (fra l’altro, l’acronimo rimarrebbe invariato) e cominciare ad apprezzare fin da subito un sostanziale cambio di passo.
Una macchina ha un tempo di esercizio, una persona ha una storia. Originale, unica, irripetibile.
Ecco il punto, le relazioni si nutrono di storie. Saper raccontare una buona storia, a cominciare da quella personale che, ovviamente, ci riguarda direttamente, fa la differenza fra una persona e una risorsa.
Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla” (Alessandro Baricco, Novecento)
C’è un “sentire” diverso fra “Ho 10 anni di esperienza in panetteria” e “Praticamente, faccio il fornaio da sempre. Portavo ancora i calzoni corti quando, ogni mattina, il profumo del pane appena sfornato mi diceva che un giorno avrei fatto quel mestiere. Non mi sono mai immaginato un astronauta.”
Come si è visto, non è necessario che la storia abbia la esse maiuscola. È importante potervi riconoscere un eroe con in testa un obiettivo da raggiungere, ostacoli compresi.
Proprio perché il cervello umano cresce con le storie, un’efficace narrazione di noi stessi è l’arma più potente che abbiamo per farci apprezzare in tutte le relazioni (toh!, ancora loro), comprese quelle che possono decidere il nostro futuro professionale.
Quindi, avendo chiari gli archetipi tipici del racconto, restano da mettere a punto le ancore della storia personale.
Partire dalla fine
Avere un traguardo (“Voglio specializzarmi nella gestione della sicurezza aziendale”, “Voglio convertire il mio marketing tradizionale in un contesto digitale”, “Voglio aprire un negozio di artigianato tipico”) ci dà la possibilità di creare il percorso narrativo più avvincente. Una specie di “collegamento dei puntini” a ritroso.
Detto così sembra facile, ma per creare un racconto che affascina è inevitabile “calzare gli stivali” e cominciare a scavare nel nostro passato. È in questo luogo, spesso impervio, che andremo alla ricerca delle difficoltà, delle battute d’arresto, dei fallimenti che rendono autentiche le storie. Non basta dire “Mi sono fatto da solo”, serve la consapevolezza dell’analisi. Cioè, quando abbiamo cominciato a misurare in termini di miglioramento le nostre risposte agli eventi avversi.
Il punto di svolta
Magari è stata proprio una porta sbattuta in faccia a farci capire il potenziale che avevamo a disposizione. Ecco allora che la nostra storia prende tutta un’altra strada, inattesa e sorprendente al tempo stesso.
Sii il primo a crederci
È impossibile ammaliare gli altri se siamo noi i primi a non credere nella nostra storia. Se ogni volta che raccontiamo il flusso delle nostre vicende personali, ci emozioniamo come se fossero raccontate in un film, possiamo essere certi che a un certo punto il successo ci apparirà inevitabile.