Descriviamo il mondo con le parole. Senza esagerare, potremmo addirittura affermare che la Terra esiste proprio grazie alla rappresentazione che viene fatta dalle parole.
Ma le parole hanno le gambe e non stanno mai ferme un minuto. Quelle che fino a ieri ci sembravano tutto sommato innocue e, per questa ragione, ci giocavamo come fanno i bambini con un oggetto qualsiasi, ora ci incutono paura. Molta paura.
Penso a tutto il corollario pubblicitario che va da target a mission, passando per la guerrilla e il leggiadro slogan del quale ci eravamo scordati la sua derivazione dal gaelico (“urlo di guerra”). Così come avevamo rimosso rapidamente dai nostri archivi mentali la simmetria fra brainstorming e “Desert Storm”, forse perché le bombe sganciate nel Golfo Persico erano lontane. Molto lontane.
È così, la guerra – soprattutto quella che ci rimanda gli echi come fossero sul pianerottolo di casa nostra – mette le parole, nessuna esclusa, in un altro sfondo, che per via della nostra predisposizione a dimenticare, ci appare inedito e assurdo allo stesso tempo.
In questo caleidoscopio lessicale di manomissioni e trasmutazioni, sembrano resistere solo i significati che esprimono la morte e il potere. In tutte le tragedie belliche si toccano fino a fondersi.
Per l’appunto, c’è un fantasma che perseguita tutti i dittatori (sia quelli ufficiali che de facto): la danza con la morte. L’ombra della dipartita diventa la paranoia assillante per la conseguenza per loro più terribile: la perdita del potere. Un’estremizzazione malata della nostalgia dei (bei?) tempi andati, quando si accorgono che c’è un potere che non potranno più conquistare: gli anni della giovinezza.
Allora, la mente del despota, mentendo a se stessa e non potendo evidentemente riavvolgere il nastro della vita, cerca di riconquistare con tutti i mezzi possibili (la guerra è uno di questi) il mondo della sua età giovanile.
Da sempre, la forza trainante del terrore è l’illusione dell’immortalità. È il punto di non ritorno, dove l’intelligenza muore per dissanguamento, lasciando il posto all’inaccettabile parabola della fine.
Poi ci sono le persone, anch’esse fatte di parole. Le relazioni sono parole, gli sguardi fra le righe di una lettera sono parole, le carezze fatte durante una telefonata sono parole.
Le parole ci permettono di nominare un vedovo o una vedova come quelli che hanno perduto l’amore di una vita. E ancora, sappiamo che gli orfani sono coloro che rimangono senza genitori.
Ma non abbiamo una parola per appellare una madre (o un padre) che perde un figlio. La più terribile delle esperienze è indescrivibile, inconcepibile, anonima.
Alla guerra, soprattutto alla guerra, manca questa parola. Non ce l’ha mai avuta.
Fra le macerie della guerra, personali e collettive, sopravvive solo il ricordo. Forse, l’unica parola che le racchiude tutte. Più potente di qualsiasi distruzione, più fragile di ogni memoria che la nostra colpevole distrazione ha fatto evaporare.
Foto di Eduardo Goody