Dall’allegoria orwelliana abbiamo imparato che qualcuno è più uguale degli altri, poi arriva lo scandalo Volkswagen e l’assunto va a farsi friggere. Lungi dall’essere esclusivamente una faccenda aziendale e ambientale, le bugie della casa automobilistica di Wolfsburg in poche ore hanno gettato nel discredito un’intera nazione. Da oggi, l’efficienza, la perfezione e la credibilità non sono più un marchio di fabbrica esclusivo “dei tedeschi più uguali degli altri”.
[bctt tweet=”I tedeschi non sono più uguali degli altri.”]
Al di là delle inevitabili ripercussioni economiche e politiche, anche in questo caso gli aspetti di comunicazione giocano un ruolo fondamentale. Più che in passato, dove le crisi (e gli incidenti) potevano giovarsi della relativa lentezza e della bassa copertura dei media, allo stato attuale il “re è nudo” in tutto il mondo nel brevissimo volgere di un battito di ciglia.
Con una informazione ormai tendente all’istantaneità, diventa fondamentale agire in fretta, assumersi subito tutte le responsabilità (il tempo poi dirà se la colpa era reale o no) e tentare di ricostruire, in una situazione oggettivamente difficile, la fiducia e la brand equity del marchio.
Rispetto ad altre situazioni di crisi, alcune delle quali avevano coinvolto in passato anche la stessa Volkswagen, va detto che questa volta la casa automobilistica tedesca non ha dormito in piedi, non fosse altro per le (quasi) immediate dimissioni dell’amministratore delegato dell’azienda. Tuttavia, rimane l’impressione che la Volkswagen voglia adottare la cosiddetta regola dei 10 giorni, considerato come il tempo massimo in cui una notizia tiene banco sulle prime pagine dei giornali. A dire il vero, questa teoria ha funzionato in molte occasioni, ma nel caso specifico l’effetto domino della vicenda, teorie complottiste a parte, fa prefigurare una persistenza ben più lunga.
In questi casi, nessuno può ergersi a indovino (figuriamoci io!) e il buon senso suggerisce sempre la massima cautela, pur tuttavia mi sento di poter dire che il percorso di riabilitazione dell’immagine di VW dovrebbe far propri alcuni passaggi fondamentali.
1. Chiedere scusa, ma per davvero.
L’amministratore delegato, fino alla sua dipartita (professionale, s’intende), è intervenuto in due tempi. La prima volta si è detto “dispiaciuto”, poi a distanza di 48 ore ha dichiarato di essere “infinitamente dispiaciuto”. Chiedere scusa significa mostrarsi profondamente rammaricati, assumendosi in pieno tutta la responsabilità. In casa VW ciò non è ancora avvenuto in maniera chiara e netta. È del tutto comprensibile rimanere relativamente abbottonati, evitando sbilanciamenti che spalancherebbero le porte a class action su scala mondiale, ma senza delle scuse vere è molto difficile pensare che i clienti (passati e futuri) possano perdonare la Volkswagen.
2. Trasformare le linee di produzione in case di vetro.
L’onestà di dire la verità fino in fondo. Non si può certo biasimare l’ex AD se non conosce gli scritti di Antonio Gramsci, ma sarebbe stato veramente rivoluzionario ammettere fin da subito quanti veicoli risultano manomessi e come ciò sia potuto accadere. Siccome è difficile pensare che tutto lo stratagemma di elusione dei controlli sia stato messo in atto da una sola persona, finisce che le cose prima o poi trapelano. Meglio venire a sapere tutti i fatti dalla bocca dell’azienda, invece che dalle indagini del magistrato. O no?
3. Chi sbaglia paga.
Gli errori li commettono tutti. Quando però sono deliberati e causano danni a mezzo mondo, bisogna farsi la ragione che offuscare la verità fa solo ritardare la ripartenza. Si legge che la VW abbia ingaggiato lo studio legale americano Kirkland & Ellis. Per la cronaca, sono gli stessi avvocati che hanno difeso la britannica Bp nell’inchiesta sulla marea nera che nel 2010 ha devastato il Golfo del Messico. Questo è stato sufficiente per lasciare campo libero a un’infinità di rumors che, a ragion veduta, prefigurano una linea difensiva piuttosto aggressiva. Vedremo, ma se così sarà non mi pare una scelta molto azzeccata.
4. Il valore del marchio.
Fino a quando durerà la bufera mediatica, ogni volta che il marchio VW apparirà da qualche parte verrà associato solo a connotazioni negative. Ciò non significa che in tutto questo tempo l’azienda dovrà rimanere in silenzio, ma molto più pragmaticamente dovrà cercare di salvare il salvabile attraverso la sua storia fatta di persone. Certo, come ha dimostrato questa brutta vicenda, ci sono state delle persone che hanno infangato l’onorabilità aziendale, ma ce sono tantissime altre che hanno speso una vita per incarnare dentro il marchio VW il concetto dell’auto in senso assoluto, come cita il claim della pubblicità.
5. Volkswagen, anno zero.
Il parallelo con il capolavoro di Roberto Rossellini è sicuramente esagerato e nemmeno lontanamente paragonabile, resta comunque la necessità di ricostruire da zero un’identità aziendale. Ovviamente, ciò dovrà avvenire al netto degli esosi risarcimenti per le gravi conseguenze causate sul piano ambientale e della salute pubblica.
Andranno sostituite parecchie teste e a più livelli. Ma tutto verrà vanificato se il cambiamento sarà ispirato solo dalla volontà di punire. Quello che deve rinascere è una nuova mentalità.
Le centraline elettroniche sono comandate da software di cui ignoriamo le proprietà e, di conseguenza, nulla ci è dato a sapere circa la veridicità dei parametri elaborati. Se d’ora in avanti VW adottasse nelle sue macchine solo software a codice sorgente aperto, potrebbe essere un bel segnale per l’opinione pubblica e per tutto il mercato dell’automobile. Tradotto in parole povere: “Lo ammettiamo, abbiamo truccato i dati sulle emissioni. Però adesso siamo i primi a metterci a nudo e chiunque può vedere e capire come funzionano i nostri autoveicoli”. Servirà senz’altro anche molto altro per riconquistare l’orgoglio di chiamarsi Volkswagen, ma temo che senza una decisa sterzata, la china della casa tedesca sarà quella, per usare un termine caro al settore, della rottamazione.