Quando incontriamo una persona per la prima volta, immediatamente elaboriamo un giudizio e, ovviamente, gli altri fanno altrettanto nei nostri confronti. In pochi secondi ci facciamo un’idea di chi abbiamo di fronte: che tipo di persona è e se ci possiamo fidare.
Tutte le volte che rimuginiamo fra noi e noi “A pelle sento che quella persona ha qualcosa che non mi convince…”, significa che il nostro inconscio ha innescato una risposta negativa nel cervello. La maggior parte delle comunicazioni con le persone che ci circondano sono di tipo non-verbale, ma anche la parte verbale ha il suo peso in quanto i “nostri sensori” sono programmati per cogliere maggiormente le sfumature di come lo si dice rispetto a cosa si dice.
Il processo per realizzare una prima impressione è rapidissimo e, paradossalmente, molto persistente. Infatti, il ribaltamento dell’idea che ci siamo fatti sul conto di una persona richiede molto tempo e non è detto che l’esito sia sempre positivo.
Per esempio, se incontriamo il signor Mario e per i meccanismi appena visti elaboriamo su di lui un giudizio negativo, nella nostra mente verrà archiviato con questa etichetta. Se poi ci capita di rincontrarlo in un altro contesto e magari ci facciamo l’idea opposta, il nostro cervello non cancellerà l’opinione negativa che conserviamo di lui (almeno non in tempi rapidi), ma si limiterà a costruire un’eccezione: “Mario è un tipo intrattabile sul lavoro, ma alle feste è divertente”. Questo spiega perché ci sono persone che ci piace incontrare in determinate situazioni e, al contrario, preferiamo evitarle in altre.
[bctt tweet=”Non c’è mai una seconda occasione per fare una buona impressione la prima volta. (cit. Oscar Wilde)”]
Insomma, fare una prima buona impressione è fondamentale. Ma come riuscirci?
Esistono una miriade di studi sui rapporti umani e sull’efficacia delle relazioni fra le persone. Che abbia il sigillo scientifico oppure no, nessuna di queste analisi prescinde dall’ingrediente principale: avere fiducia in sé stessi.
Quindi, nessun incantesimo magico, ma solo una serie di atteggiamenti che possono favorire il riconoscimento della nostra empatia da parte degli altri.
A me gli occhi
Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Quante volte lo abbiamo sentito dire? In base agli sguardi, la programmazione neuro-linguistica distingue i sistemi rappresentazionali della realtà, ma senza andare troppo in là è facile intuire come il contatto visivo venga interpretato alla stregua di un segno di fiducia in sé stessi e, allo stesso tempo, in grado di innescare nel cervello dell’interlocutore la medesima sensazione.
Guardarsi negli occhi non è sempre facile. Lo sanno bene gli amanti che preferiscono annunciare la rottura del loro rapporto sentimentale con WhatsApp, anziché faccia-a-faccia.
Al pari, un contatto visivo troppo persistente può essere letto come una forma aggressiva di sfida. Dobbiamo guardare le persone negli occhi quando serve: nei saluti, nelle strette di mano, nei dialoghi diretti.
Qua la mano!
Sulla stretta di mano le teorie si sprecano, specie negli ambiti del business. Da quando qualcuno ha detto che la stretta di mano, distintiva della persona affidabile, deve essere più forte che si può, c’è chi esagera e non si contano più le fratture del metacarpo. A parte gli scherzi, una buona stretta di mano deve essere decisa (ma non dolorosa), calda (il cervello associa a una mano fredda una personalità glaciale), asciutta (una mano sudata viene correlata a una persona in perenne stato di agitazione).
Modulazione di frequenza
Quasi automaticamente, moduliamo la nostra voce in base al contesto in cui siamo, cioè l’ufficialità o l’informalità di una situazione innescano in noi diverse tonalità vocali. Il problema è che spesso queste variazioni vengono percepite come artefatte, gettando così un’ombra sinistra sul nostro tentativo di autenticità.
Senza la necessità di dover studiare canto al conservatorio, buoni risultati si ottengono impegnandosi su un registro vocale dinamico, con un’ampia gamma tonale e un timbro moderatamente alto. Se iniziamo a parlare con un volume basso, finiremo la chiacchierata sottovoce. Il bisbiglio non è mai stato sinonimo di fiducia.
Il monaco fa l’abito
Su come agghindarsi, specie in un colloquio di lavoro, i consigli sono milioni. Molti di questi suggeriscono di vestirsi con capi costosi al solo scopo di impressionare. Sia chiaro, in molte situazioni vestirsi bene fa rima con la percezione di autorità, ma non è sempre così. Infatti, la figura pacchiana è sempre dietro l’angolo.
Come regola generale, vestirsi in maniera simile alla persona che si sta incontrando può predisporre a una buona impressione. In larga misura le persone apprezzano chi è come loro, non meglio di loro.
La postura da impostare
Dal linguaggio non-verbale si ottengono molte informazioni. Parecchie di queste non vengono processate a livello conscio, ma attraverso gli strati più primitivi del nostro cervello. Nelle fasi primordiali dell’evoluzione umana bisognava decidere in fretta il da farsi (amico o nemico, buono o cattivo, restare o scappare), per questo motivo l’interpretazione dei segnali del corpo si è sedimentata nel nostro codice genetico e può vantare qualche millennio di sperimentazioni sul campo. Per questi motivi, una postura aperta (mento in su, braccia distese lungo il corpo, schiena dritta) è riconosciuta come tipica di una persona cordiale, amichevole, affidabile.
Photo by Vater_fotografo
Bellissimo !!!!
Direi anche troppe “pillole”
tutti in uno stesso post per Lei Gridelli che regala segreti, e per noi lettori che ( troppo insieme ) rischiamo di dimenticarceli !!
Grazie
Fabio
Bellissimo !!!!
Direi anche troppe “pillole”
tutti in uno stesso post per Lei Gridelli che regala segreti, e per noi lettori che ( troppo insieme ) rischiamo di dimenticarceli !!
Grazie
Fabio
“ troppo insieme “ errore del T9 era “ tanti insieme “