“Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”. Nonostante la sua controversa attribuzione, questa citazione resta un pilastro della teoria dell’evoluzione.
In maniera graduale, ma costante, generazione dopo generazione accumuliamo delle trasformazioni che danno origine a nuove specie e, portando il processo su un altro livello di ragionamento, a nuove “dialettiche sociali”.
Fra queste ce n’è una particolarmente interessante che conferma il paradigma dell’adattamento trasformativo. Da quando il computer è diventato una commodity fungibile (a parte la piccolissima nicchia che presidia l’ostentazione dello status symbol) tutti si dicono “creativi”. Addirittura, con la recente irruzione delle intelligenze artificiali à la carte, per appuntarsi addosso le stellette non serve nemmeno più sbattersi per trovare un software grafico craccato.
L’equazione secondo la quale avere il mezzo (il computer) corrisponderebbe all’acquisizione automatica delle competenze (la creatività) è stata di fatto accolta come una sorta di risultante (pardon, evoluzione) naturale.
E se qualcuno ha l’ardire di fare osservare che comprare uno stetoscopio non ci fa di colpo diventare dei medici, la risposta corale della categoria “siamo tutti creativi” è che il computer, elevato al rango di automa pensante, “fa tutto lui”.
Non c’è più la pubblicità di una volta
Più o meno nello stesso periodo in cui avanzava questo cambiamento, i media classici hanno cominciato a perdere grosse quote di mercato pubblicitario a vantaggio di un nuovo emergente meccanismo di distribuzione: la rete.
Così, la televisione e la radio, da soggetti terzi e vincolanti del meccanismo pubblicitario, hanno dovuto accettare anche ciò che fino a quel momento non ritenevano creativo, proprio perché internet aveva cominciato a trascendere il significato stesso della parola. Dapprima furono gli imprenditori ad apparire in video in prima persona (“Parola di Francesco Amadori”), poi arrivarono gli “artigiani” più o meno della qualità , e infine, i trend che fanno il verso agli innumerevoli meme del web.
Pertanto, l’accoppiata computer-internet ha impresso maggiore velocità (e inedite traiettorie) alla diffusione della nuova specie creativa. Non più, o non solo, copywriter e art director “di scuola”, ma anche hacker, youtuber, tiktoker.
Stiamo andando verso il sonno o il sogno creativo?
A questo punto, è inevitabile domandarsi che cosa sia la creatività. Ma prima ancora, è forse propedeutico immaginare che cosa potrebbe rimanere di tutti questi slanci creativi se di colpo sparissero i computer e internet.
Ci addormenteremo in un sonno profondo o continueremo a sognare? Al netto di tutti quelli che rimarrebbero fra le braccia di Morfeo fino al termine della glaciazione (per capirci, coloro che chiedono a ChatGPT di scrivere anche un telegramma di condoglianze), sono comunque convinto che i sognatori sopravviverebbero.
È probabile che la diffusione delle idee subirebbe un notevole rallentamento, ma la curiosità ci spingerebbe comunque a trovare un senso anche dove apparentemente sembrerebbe non esserci.
Gli esseri umani sognano da sempre. A volte si è tentato di attribuire un significato ai loro “viaggi notturni”, ma in altre occasioni, non ricordando nulla di questo vagare mentale, la nostra specie ha seguito l’energia creativa che era rimasta dentro il corpo sotto forma di “semplici” sensazioni.
Il processo creativo è in sostanza una deviazione dalla norma che, in maniera improvvisa e imprevedibile, sviluppa nuove prospettive o collega quelle vecchie secondo modalità talvolta bizzarre. E questa ricchezza di elaborazione non è schiava di un elaboratore, ma dei sogni.
La grande bellezza del genere umano è tutta qui.
Foto di Robert Linder

