Quando il circo dei social era ancora una cosa che nessuno poteva immaginare, le tendenze facevano il paio con cambiamenti sociali emergenti e collettivi. Situazioni non necessariamente condivise all’unanimità, ma di certo portatrici di mutamenti culturali che, da una parte o dall’altra della barricata, modellavano opinioni contrastanti, ma comunque sempre basate su paesaggi di senso comprensibili.
Prima della diffusa esaltazione del corpo come superficie comunicativa permanente e irreversibile, il tatuaggio e il piercing hanno cercato di trovare la loro dimensione nel concetto di moda, ossia dentro la cornice classica di questo fenomeno di costume caratterizzato fondamentalmente dalla sua costante mutazione nel tempo. Ne sono testimonianza le decorazioni sulla pelle realizzate con i pigmenti dell’henné e gli orecchini per il naso con la calamita al posto della chiusura ad ago.
Non siamo più solo spettatori
Per molto tempo, la possibilità di “tornare indietro” ha fatto parte della sua stessa risonanza culturale. Poi, il moderno medium tecnologico ha fatto sì che noi tutti cessassimo di essere dei “semplici” spettatori per traghettarci nel rutilante luna park dei produttori di informazioni. Senza alcuno sforzo, senza una reale conoscenza di noi stessi, senza rispetto dei nostri limiti e di quelli degli altri.
Siamo così passati dal “fare tendenza” all’aspirazione ossessiva di “essere in tendenza”, facendo di fatto perdere significato alla concretezza estetica, a tutto vantaggio di un’esposizione sempre più effimera e pericolosa nello stesso tempo.
È iniziato in questo modo un inseguimento spasmodico del superamento del limite, con l’obiettivo di dimostrare al mondo la propria esistenza unicamente a colpi di like e follower. Dimentichiamoci i proverbiali 15 minuti di celebrità, dato che “l’oltre” si sposta continuamente, ora si viaggia sui centesimi di secondo.
Questa accelerazione sembra essere diventata l’unica risposta possibile per affrontare il collasso culturale che vediamo ovunque. Non riuscendo a tenere il passo, forziamo le macchine fisiche e cognitive ad andare oltre le loro stesse caratteristiche più estreme, senza lasciare il benché minimo spazio alla comprensione dell’assurdo che ci sta divorando.
Il tempo di cui abbiamo bisogno
Senza accorgercene, abbiamo finito per confondere la velocità con la novità. La posta in gioco non è più il “peso”, cioè l’importanza culturale di un fenomeno, ma quanto è rapida la tempistica algoritmica che farà andare “in tendenza” quel fenomeno.
In un certo senso, l’equazione della forza quale prodotto della massa per l’accelerazione, è stata alterata a tal punto da considerare solo la “dimensione” (più grande è la performance e meglio è) e non anche il suo “peso” (la cifra culturale che esprime).
Detto in altri termini, equivale a dimenticarsi l’umano e il suo essere nel mondo. È vero che i dettagli spesso fanno la differenza, ma è altrettanto certo come il loro senso abbia valore solo dentro il quadro di riferimento complessivo. E quest’ultimo ha una sola dimensione: il tempo.
Riprendiamoci il tempo di ascoltare il tempo. Sì, perché il tempo ci dice che è qui ed ora. E la cosa più rilevante delle parole che ci sussurra continuamente è l’accettazione del nostro limite esistenziale. Perché non vivremo per sempre.
Alla fine della nostra parabola, non avremo preso decisioni su un numero incalcolabile di scelte, ma quelle poche che saremo riusciti a concretizzare senza lo scopo meramente utilitaristico di “essere in tendenza”, saranno le sole a farci davvero apprezzare il nostro piccolissimo tempo trascorso in questo piccolissimo pianeta.
Foto di Tanino