“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato” e poi, più avanti, “la vera crisi, è la crisi dell’incompetenza”.
Correva l’anno 1931 quando Albert Einstein scriveva Il mondo come io lo vedo, una raccolta di riflessioni sulle grandi sfide della vita. Erano tempi di grandi e drammatiche trasformazioni, infatti ancora riverberavano in Europa i postumi della crisi economica americana del 1929 e, di lì a poco, tutto il vecchio continente sarebbe stato travolto dalla truce follia nazista.
Cambiano i contesti, ma rimangano costanti le forze rigeneratrici insite nell’essere umano. Per questo motivo, la pandemia planetaria rappresenta un altro, e sicuramente nemmeno l’ultimo, momento di rottura con gran parte di ciò che c’era prima.
Non sono mai stato particolarmente affascinato dai vari “andrà tutto bene” e “ne usciremo migliori” perché vi leggevo dentro una specie di inerzia, quasi un’attesa passiva della sedimentazione degli effetti nefasti, nella convinzione che, solo questione di tempo, sarebbe prima o poi arrivata una schiarita.
Se invece consideriamo lo sconvolgimento di questi ultimi due anni alla stregua di una crisi di sistema – non vedo altra interpretazione possibile – è facile rendersi conto di come questa stessa crisi rappresenti di fatto una separazione dallo status quo e, di conseguenza, contempli l’implicazione di una scelta.
Ora, questa lunga premessa mi è stata stimolata dal ritorno nell’aula fisica di buona parte della formazione aziendale. Pur avendo ceduto anch’io inizialmente all’etichettatura mainstream dei “corsi in presenza”, definendo quindi, per ragionamento opposto, “corsi in assenza” quelli in remoto, oggi sono più che mai convinto che anche la formazione debba cominciare a separarsi dal suo passato.
E siccome l’azione immaginata del pensiero trova la sua realtà più immediata nel linguaggio, abbiamo un urgente bisogno di trovare parole nuove.
Giocare invece di interrogare
Sebbene gli intenti della formazione professionalizzante siano altri, al suo interno è sempre ben visibile il retaggio scolastico. Ovvero, il meccanismo domanda-risposta che molto spesso si porta dietro la paura del fallimento.
Sia chiaro, fallire fa parte dell’apprendimento, ma la motivazione non si accende se tutto viene vissuto come un incubo. Soprattutto nel caso in cui vi sia addirittura un supplemento di ridicolizzazione.
“Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio” sosteneva Samuel Beckett. Il gioco compie proprio questo “miracolo”, mette in secondo piano l’angoscia della sconfitta e stimola il miglioramento continuo.
Pensiamoci: quando giochiamo, il game over ci fa arrabbiare, ma non ci imbarazza, anzi ci spinge a impegnarci di più.
Coinvolgere invece di spiegare
Generalmente, la nozione è sempre qualcosa di poco attraente. Tutte le generazioni di studenti, a parte rarissime eccezioni, durante le spiegazioni monodirezionali si sono quasi sempre prodigate a riempire di scarabocchi i loro diari e quaderni o, nei casi limite, dormire.
Non è con le litanie dei rudimenti che l’insegnante riesce a far passare il concetto secondo cui un giorno le sue spiegazioni potranno essere effettivamente utili.
“Se ascolto dimentico, se guardo capisco e se faccio imparo”, lo diceva Confucio già due millenni e mezzo fa. Il coinvolgimento, proprio perché è nemico della passività, aumenta la comprensione di qualsiasi materia o argomento.
Laterale invece di lineare
Se consideriamo la pressoché totalità dei curricula, stendendo altresì un velo pietoso su quelli in formato europeo, ci rendiamo immediatamente conto della loro omologazione. Cioè, sembrano fatti tutti con lo stampino: nessun grado di divergenza rispetto allo schema titoli-esperienze-interessi, senza dimenticare l’onnipresente “buona conoscenza di Windows e di Word”.
In questo scenario apocalittico, dovrebbe diventare un imperativo della formazione quello di far comprendere la differenza fra ciò che uno è (sancito dall’attestato, dal diploma, dalla laurea) e ciò che uno sa fare. A maggior ragione nel “nuovo mondo” post-pandemico.
È noto come le valutazioni su scala lineare (la medesima per tutti) non tengano conto delle preferenze e degli stili di ogni singolo partecipante al corso di formazione. Ne deriva che il vetusto questionario di apprendimento (spesso usato dall’insegnante come un’arma da brandire per richiamare l’attenzione degli studenti) non può reggere il confronto con le abilità che saranno sempre più richieste a tutti i livelli.
Pertanto, “saper fare” significa liberare il pensiero laterale e consentirne la sua massima possibilità di espressione. Mi spiego, se lo scopo è quello di ottenere una misura del grado di apprendimento raggiunto dalla classe o dall’aula, cosa c’è di meglio del lasciare la libertà di esprimerlo attraverso un saggio, un disegno o una presentazione?
Foto di Iñaki del Olmo