Tutti ci poniamo degli obiettivi. Nella vita, nel lavoro, nelle passioni è normale darsi dei traguardi o, meglio, aspirare a ottenere i successi che desideriamo. Poi, nella grande maggioranza dei casi, c’è sempre qualcosa che fa deviare la felicità di essere riusciti completamente nell’intento su uno stato a metà strada fra il “meglio che niente” e il “tanto non potevo ottenere di più”.
Si tratta in entrambi i casi di convinzioni limitanti che, anche se non ce ne accorgiamo, conferiamo già in dote al nascituro obiettivo.
Ciò avviene attraverso due modalità. La prima, forse la più temibile, è una specie di cortocircuito dall’esito scontato: “Penso di perdere, pertanto non ha senso che mi metta d’impegno per riuscire nell’impresa”. Di conseguenza, il risultato sarà insoddisfacente. Come dire, è difficile vincere quando siamo noi i primi a non crederci.
Al contrario, ma i meccanismi di pensiero utilizzano le stesse categorie appena viste (c’è solo un’inversione di polarità), possiamo letteralmente far saltare il banco: “Posso vincere e faccio di tutto per riuscirci”.
È quello che deve aver pensato Roger Bannister quando il 6 maggio 1954, correndo il miglio, ha fermato il cronometro su 3′ 59” e 4 decimi. Il “muro” dei 4 minuti era ritenuto fisiologicamente insuperabile da un essere umano, ma il mezzofondista britannico si era allenato per liberarsi soprattutto da ciò che era diventato un vero e proprio blocco mentale. Da quel momento in poi, numerosi atleti sono scesi sotto quel tempo considerato impossibile.
Lo sappiamo, le profezie finiscono per auto-avverarsi. Nel senso che una convinzione falsa diventa vera nelle sue conseguenze che non possono che essere, evidentemente, negative. Ma come se non bastasse, abbiamo sempre una scusa perché “sia che crediamo di farcela o di non farcela, avremo comunque ragione” (Henry Ford).
La seconda modalità, dagli esiti non meno disastrosi, consiste nel determinare il successo solo una volta raggiunto l’obiettivo. Detto in altri termini: “Quando avrò riparato la lavastoviglie sarò felice”.
Questa auto-convinzione si diffonde silenziosamente nel nostro cervello e crea di fatto una routine negativa. Vediamo come.
Considerare centrato un obiettivo solo nel momento in cui tagliamo la linea del traguardo, equivale a convincersi che per tutto il tempo in cui siamo impegnati in quel particolare lavoro stiamo fallendo. Ecco allora che sopraggiunge la demotivazione perché ogni eventuale progresso ci fa solo vedere che ancora non abbiamo fatto il cosiddetto goal.
E, in ogni caso, anche ammesso (e non concesso, of course!) che portiamo a casa il risultato, abbiamo trascorso tutto il processo di avvicinamento in uno stato di costante frustrazione che per molti versi non ci fa nemmeno godere del risultato ottenuto.
Un cambio di paradigma, non esiste il punto finale
Ogni nostra attività è un viaggio fatto di piccoli successi in continuo miglioramento. È così la vita perché è così il mondo in cui stiamo.
Tutte le mattine rifacciamo il letto sapendo benissimo che all’indomani dovremo ripetere la stessa operazione. Credo che nessuno pensi che basti farlo una volta per essere a posto per sempre.
Questa semplice constatazione ci porta dritti dritti a prendere in considerazione un approccio metodologico che supera l’obiettivo in sé a tutto vantaggio dell’impostazione sistemica.
Cos’è un sistema?
Darsi un obiettivo non significa un granché se di pari passo non viene anche pianificato il modo per raggiungerlo. In un certo senso, anche le tanto utilizzate to-do-list, che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, servono solo a crearci ansia (“Oddio, devo ricordarmi di fare la tal cosa…”) se non le dotiamo di una mappa che ci indica il percorso per arrivare a destinazione.
Come in tutti i viaggi, anche nel raggiungimento di un obiettivo ci sono delle soste intermedie che ci permettono di valutare la strada che abbiamo fatto. Non siamo ancora arrivati a destinazione, ma la nostra felicità, che evidentemente si era svegliata prima di noi, era già lì ad aspettarci.
Foto di Kelly Sikkema