Se il sole non tramontava mai sull’impero di Carlo V, con la “vecchia” radio, da oltre un secolo, possiamo essere informati sul periodismo della stella più luminosa, minuto per minuto, in ogni parte della Terra.
Tuttavia, gli old media continuano a essere “aspetti individuabili” della nostra realtà quotidiana. Vedere la televisione, ascoltare la radio, parlare al telefono, andare al cinema, sono “strati” circoscrivibili della vita delle persone. Cioè, abbiamo la percezione di compiere un’azione definita e, per questo, estrapolabile da un contesto.
È la logica dell’estetica ottocentesca. I “vecchi” media lasciano intravvedere una differenza piuttosto netta fra soggetto e sfondo. Una specie di gerarchia formale in cui i vari livelli rimangono perfettamente separati. Se affermo che stasera andrò al cinema, di fatto distinguo questa funzione da tutte le altre.
Non è così con “l’avvolgimento” operato dal digitale. Non c’è più una gerarchia, per così dire, delle informazioni o dell’apprendimento.
In altre occasioni ho parlato di mutazioni. Fenomeni ancora flebili, ma sicuramente in atto. Assisto a un “modellamento” della coscienza degli uomini (e, pertanto, della loro cultura) ad opera del digitale. E tutto ciò in una prospettiva già ampiamente teorizzata da Luhmann. Il sistema, nella sua valenza sociale, è fatto di atti comunicativi. L’uomo (elemento di disturbo?) ne rimane al di fuori, semplicemente perché appartiene ad un altro sistema, quello psicologico.
Si sente dire “io il computer non lo uso” (sistema psicologico), quasi a significare una life style salvifica che avrebbe addirittura la pretesa di andare oltre la condizione post-moderna. Poi le stesse persone utilizzano con molta disinvoltura (e senza farsi particolari problemi) Bancomat, carte elettroniche, Telepass, ignorando che in quel preciso istante stanno usando un computer (sistema sociale).
Ecco il punto. Stiamo andando verso l’era del computer invisibile o, per certi versi, nella direzione degli “info-domestici”, cioè strumenti elettro-informatici di uso quotidiano in cui è del tutto occultata la matrice digitale.
Il mezzo (e anche il digitale lo è) non è solo fine a sé stesso. Converge verso modificazioni filosofiche, antropologiche, sociali. In una parola, diventa la “vita” degli esseri umani. In questo senso, trovo poco lungimiranti le disquisizioni su computer e sistemi operativi in quanto tali. Siamo di fronte a una realtà digitale o, ancora meglio, “numerica” che va ben al di là della scheda madre, della ram e dei software che ci girano dentro.
In questo processo, che oserei definire irreversibile, credo si debba cogliere tutta la portata rivoluzionaria di un movimento ambizioso come quello dei Digital Champions. Ovvero, la creazione di un network di persone che trova la propria sintesi nei progetti di alfabetizzazione digitale (e sociale), nell’obiettivo di aprire le menti alla logica computazionale, nel traghettare le persone da un approccio meramente consumistico della tecnologia verso un uso più consapevole nelle nuove opportunità messe in piedi dai bit, nella possibilità di cogliere i vantaggi della rete fino alle cause e agli effetti delle azioni sui social media.
In fondo cosa amiamo della realtà? Non certo la sua naturale specularità, ma piuttosto la sua alterazione in un vortice di commodity alle quali nessuno è più disposto a rinunciare. Prima c’era la realtà e qualcosa (strumenti o mezzi) che la descriveva. Oggi, c’è un tutt’uno. Un unico blocco che non è più possibile decostruire e, proprio per questo, bisognoso di interpreti che siano a disposizione di tutti. Per capire, e come stare dentro, un mondo che cambia.