Adesso tocca a noi. Noi, che non abbiamo mai preso del tutto sul serio il racconto di tempi ritenuti troppo lontani per la nostra comprensione. Noi, senza nemmeno il sibilo delle bombe che ci perfora la sottile membrana della paura, stiamo (a fatica) facendo i conti col cosiddetto distanziamento sociale.
Nella sacrosanta raccomandazione dell’isolamento, propedeutica al contenimento del virus, abbiamo cominciato a elaborare questo nuovo concetto, per noi del tutto sconosciuto. Incredibile solo da immaginare, specie dopo aver trascorso tutta l’esistenza a glorificare il superamento dei limiti (temporali, spaziali, biologici).
L’inedita dimensione del tempo nell’isolamento
Di colpo, abbiamo scoperto il tempo. O, per meglio dire, il come riuscire ad ammazzarlo senza farlo soffrire troppo (sic!). Quando tutto sembrava non esistere più al di fuori delle nostre scatolette luminescenti, ecco che abbiamo avvertito l’irrefrenabile necessità di correre, di fare la spesa più volte al giorno, di desiderare un cane da portare a passeggiare. Tutto ciò pur di uscire di casa, diventata all’improvviso la nostra prigione dorata.
È come se tutta l’umanità, all’unisono, si fosse accorta dell’esistenza delle cose normali. Nonostante gli innumerevoli comfort che pullulano nelle nostre abitazioni (quelli che ancora non avevamo li abbiamo prontamente ordinati con un click), in noi è fortemente cresciuto un “banale” desiderio di normalità.
Così, la noia ha rivelato anche il suo lato creativo. Lo vediamo nei vari tentativi di surrogare la mobilità fisica con quella virtuale. Dopo un momentaneo (e comprensibile) disorientamento, ora non abbiamo che l’imbarazzo della scelta, fra concerti live su Instagram, Zoom party, musei a “porte aperte”, corsi “gratis” e un numero imprecisato di “pillole” su tutto e di più.
A un altro livello, per molte professioni si è fatta (finalmente) strada l’inedita possibilità di lavorare da casa. Purtroppo, in un battibaleno abbiamo realizzato che smart working non fa rima con la turbolenta velocità della banda (larga?) e nemmeno con le vetuste misure della produttività. Dato che il mondo che verrà non sarà nemmeno lontanamente imparentato con quello che abbiamo fin qui conosciuto, ci sarà tempo per adeguare tutte le infrastrutture. Forse.
Intanto, come bambini al luna park, abbiamo cominciato a strillare perché volevamo lo zucchero filato. Ci siamo accorti che la cangiante ebbrezza delle montagne russe digitali, fra la curva parabolica di un social e il giro della morte di un altro, non poteva sostituire ciò che ritenevamo scontato. L’ordinarietà di un abbraccio.
La rete sta ritrovando il suo scopo originario?
Precipitata dentro un vortice di tossicità e intolleranza, mi piace pensare che per effetto di questo scossone planetario, la rete stia iniziando un lungo periodo di convalescenza.
“Il web non collega solo le macchine, collega le persone”, sono state le prime parole del suo creatore Tim Berners-Lee.
Per questo, nostro malgrado, doveva piombarci addosso un virus per farci comprendere l’esatta portata di quella frase. Lo stesso “diventare virale” ha assunto improvvisamente altri significati, più spaventosi.
Noi, cresciuti con una mentalità improntata alla divisione, stiamo imparando la lezione di un virus globale che non rispetta nessun confine, nessuna affinità politica, nessun meccanismo di generazione della ricchezza. Questa entità invisibile, in poche settimane, ha scardinato tutte le nostre certezze. Quelle che pensavamo tenessero insieme il mondo. Contraddizioni comprese.
È bastato questo cataclisma per farci riportare i piedi sulla terra (in tutti i sensi). Ogni essere vivente, senza distinzione di razza e di specie, condivide con tutti gli altri il medesimo destino. Ci voleva un distanziamento sociale per farci capire quanto siano più le cose che ci uniscono rispetto a quelle che, artificiosamente, abbiamo sempre creduto ci dividessero.
Del mondo di prima resterà la bellezza delle cose essenziali, per troppo tempo rimaste invisibili ai nostri occhi.
Dalla mia finestra ho appena visto che sono arrivate le rondini.