Il grande giorno è arrivato! Reduce da anni di convegni sulle nuove frontiere del lavoro agile, eccomi alla linea di partenza dei fatti.
Con l’imbarazzo che oscilla fra la prova costume e il primo tuffo in acqua dopo aver letto una montagna di manuali per imparare a nuotare, dalla sera alla mattina mi sono ritrovato a vestire i panni di un “mezzobusto del web”.
Dentro a un’orda digitale di insegnanti (dai maestri ai professori) e di chef (dai cuochi della trattoria agli stellati) hanno trovato la loro “dimensione virtuale” anche i formatori aziendali delle più disparate discipline.
Lo dico subito, parlare per 8 ore davanti a un monitor non è una passeggiata di salute. Mancano i gimme five che dispenso a “piene mani” durante i miei corsi in aula, si perde quasi completamente il contatto visivo (si guarda lo schermo, non la webcam), va a farsi benedire una buona metà della comunicazione non verbale.
La buona notizia
Un po’ per verificare se la piattaforma funzionava e un po’ perché sono un “anticipatario” cronico, mi sono collegato mezz’ora prima dell’orario stabilito. E ho fatto bene.
Con mia grande sorpresa, c’era già un discreto numero di corsisti che chiacchieravano fra loro. Quale migliore occasione per rompere il ghiaccio? Fuori dalla formalità dei registri, degli appelli e delle firme di presenza, si è immediatamente materializzata (mi si passi l’ossimoro) l’opportunità di familiarizzare con “il macchinario” e, soprattutto, con le persone.
Così, i fondamentali mi sono venuti in soccorso anche online. Dalla mia cassetta degli attrezzi ho tirato fuori la chiave inglese universale, ovvero l’interazione che parla al cuore e alla mente (esattamente in quest’ordine), l’informalità dei ruoli, l’accento sul “perché” (la motivazione) anziché sul “cosa” (la nozione).
Come è andata?
Siccome nella mia indole non esiste la parola “problema”, ma solo “sfida”, posso dire che molta della tensione (guai se non ci fosse) è stata letteralmente bruciata dalla curiosità di vedere come sarebbe “andata a finire”. Dopotutto, se nei miei corsi cerco di convincere gli altri a uscire dalla loro zona di comfort, non posso certo essere io il primo a rinchiudermi dentro la mia.
Quindi, gambe in spalla. Perché si sa, quando c’è la curiosità, la motivazione non tarda ad arrivare.
Le storie personali creano connessioni
Siamo creature sociali, anche quando un medium diventa il surrogato dello spazio fisico. La vivida elaborazione del cervello fa sì che bramiamo la connessione in ogni circostanza, dentro qualsiasi tipo d’interazione, con le stesse modalità che conosciamo da sempre.
E fra queste, le storie personali sono quelle che più di tutte fanno “toccare” il senso della condivisone emotiva. Ovviamente, i livelli comunicativi che prendono il comando delle operazioni non possono che essere il verbale e il para-verbale.
Senza esagerare con le pause (spesso scambiate per una “caduta del collegamento”), il viaggio collettivo dentro il percorso di vita del coach scalda la relazione a tal punto da far (quasi) dimenticare la sovrastruttura digitale che consente e sorregge tutto.
Ascoltare, ascoltare, ascoltare
Non è semplice coinvolgere tutti. Normalmente, si riescono a vedere sul display 8/9 discenti per volta, e occorre anche tenere conto del fatto che non tutti hanno la webcam abilitata (in questi casi si va di chat testuale). Pur tuttavia, ritengo fondamentale evitare il monologo. Perché non siamo a teatro e non stiamo facendo una prova d’attore.
Nella mia esperienza, conoscere le opinioni di chi sta virtualmente nella classe, è uno stimolo essenziale per capire se sto andando nella direzione giusta. Senza dimenticare che va sempre fatto salvo il presupposto secondo il quale la formazione funziona (e ha anche un senso) se l’apprendimento segue le dinamiche della bidirezionalità. Anche se al posto degli atomi ci sono dei flussi di pixel.
Né più, né meno, quello che dovrebbero diventare le aule scolastiche appena passata questa buriana virale. Solo il tempo ci potrà dire se le nuove modalità potranno diventare persistenti.
Siamo tutti “dall’altra parte”
Se è importante a livello analogico, a maggior ragione nell’estensione digitale, l’empatia diventa irrinunciabile.
“Se fossi un discente, come vorrei che fosse gestito questo corso?”, ecco cosa ho chiesto a me stesso prima ancora di accendere il computer. La risposta è arrivata naturale, quasi fosse già nascosta (nemmeno tanto bene) dentro la domanda.
Quando ci mettiamo nei panni di un’altra persona, in questo caso prossima a noi anche per modalità operative e strumenti, scopriamo come i bit siano, in un certo qual modo, democratici.
Siamo tutti al di là dello schermo. È così che ho capito che mi stavo facendo la domanda sbagliata.
Va bene trattare gli altri come vorrei io stesso essere trattato, ma ancora non basta.
La regola d’oro della formazione a distanza è capire che ogni persona, in fondo, è una luna. Tutti abbiamo una faccia illuminata (dalla webcam) e un lato oscuro (il resto non inquadrato) che lasciamo solo immaginare.
Ma, simultaneamente, fluttuiamo anche dentro un universo reticolare fatto di orbite informazionali (Google è amico di tutti, specie quando si pongono dei quesiti da risolvere), attrattive (i social sono il miglior antidoto per sopravvivere a una lezione noiosa), dispersive (la simultaneità del web fa deragliare la rigida sequenzialità degli insegnamenti tradizionali).
Da qui nasce la necessità di capovolgere lo schema della didattica della formazione, almeno quello che abbiamo conosciuto fin qui. A cominciare dalla durata temporale dei corsi che, per motivi anche solo minimamente “biologici”, dovrà inevitabilmente essere molto più concentrata e contemplare, di conseguenza, un maggiore peso specifico.