Nel silenzio cimiteriale nel quale sono avvolte le nostre città, solo le parole sembrano muoversi indisturbate. Nella simultaneità della rete, mai come ora ci siamo resi conto del loro peso.
Fra informazioni scientifiche, bollettini numerici e fake news, le nostre vite, forzatamente ridotte alla sola dimensione virtuale, molto più di prima si influenzano vicendevolmente attraverso “la causa prima”, ovvero quel verbo da cui tutto deriva.
Il linguaggio, in quanto realtà immediata e imperfetta del pensiero, ha sempre lasciato spazio a equivoci, approssimazioni, interpretazioni. Soprattutto queste ultime sembrano essere il marcatore più evidente della “comunicazione d’emergenza” in tempo di crisi.
Così, abbiamo constatato come anche la “fredda” fraseologia di un decreto ministeriale possa modificare (repentinamente) i comportamenti, le elaborazioni, le emozioni.
Un nuovo senso capovolto
La nostra storia evolutiva ci ha insegnato a essere rapidissimi nel valutare il pericolo. In un certo senso, sopravviviamo proprio grazie a questi meccanismi.
Poi, l’istinto ha dovuto fare i conti con un referente non più solo presente in sé, ma anche con la sua risultante linguistica, in equilibrio (spesso precario) fra significato e significante.
Ecco quindi che la “minaccia” si trasforma (e cambia) in relazione a quanto sanno coloro che la percepiscono. Nel passaggio dal guardare al vedere c’è la ricerca di una conferma nelle parole fino a quel momento conosciute. Per questo, fra la concretezza e l’astrazione delle accezioni esiste un territorio diverso per ciascuno di noi.
Un caso interessante è quello dell’ormai noto imperativo del “restate a casa”, dove esperienze generazionali differenti innescano scenari immaginifici di relax o di guerre. A ruota, la parola “isolamento” spalanca la porta a paesaggi di senso che oscillano fra l’incetta di pasta, acqua minerale, carta igienica nei supermercati e “marziani” con asettiche tute protettive.
Solo parole? No, impatto sociale
Specie in tempo di crisi le parole dovrebbero essere, per quanto possibile, emotivamente neutre per ridurre al minimo il panico. A cominciare dalle negazioni che il cervello percepisce in maniera esattamente contraria. Per elaborare cognitivamente la frase “non è necessario fare scorta di cibo”, i nostri “strumenti” mentali devono inevitabilmente “pensare di fare scorta di cibo per non pensarci” e… boom!
Ancora non ce ne rendiamo conto completamente, ma da qui a poco quale sarà il contraccolpo psicologico per tutti quei lavoratori che oggi “restano (forzatamente) a casa” perché sono occupati in servizi ritenuti “non essenziali”? Nel dopo che verrà, sarà ancora glorificato il famoso adagio di Oscar Wilde secondo cui “nella vita moderna il superfluo è tutto”? E ancora, il significato di “indispensabile” conserverà intatto tutto il suo panorama di senso?
Forse, è presto per porsi concretamente questi interrogativi, ma insieme alla ricerca degli opportuni rimedi medici, dovremo preoccuparci anche della cura delle parole che, con diversi gradi d’intensità, si sono inevitabilmente infettate.
La necessità di un vocabolario comune e accessibile
Le parole uniscono sentimenti, paure, esperienze. Pertanto, non è la stessa cosa parlare di “distanziamento sociale” in luogo del più corretto “distanziamento fisico”.
Nonostante tutto, continuiamo a essere degli organismi sociali. È vero, le piattaforme digitali ci connettono, ma lo fanno solo parzialmente. Mancano le compensazioni delle interazioni faccia-a-faccia, il contatto della pelle, lo sfioro del respiro.
Ad ogni modo, una comunicazione consapevole mantiene pur sempre il suo valore anche se mediata. Ma cosa succede quando il distanziamento si traduce nell’impossibilità pratica di accedere alle tecnologie della comunicazione?
Al di là delle inevitabili ricadute psicologiche, la prima considerazione va fatta sul diverso significato che connessi e sconnessi attribuiscono alla parola “distanziamento”. Nel primo caso è esclusivamente fisico, nel secondo è anche, e soprattutto, emotivo.
La dialettica del virus
Covid-19 è il nome che la comunità scientifica ha assegnato al nuovo Coronavirus. Tutto ciò per evitare lo stigma di un nome che potesse richiamare un luogo geografico, un animale, un individuo, un gruppo di persone.
Ne deriva che “virus cinese” non è solo una (innocente?) semplificazione, ma il sinonimo di xenofobia e razzismo. In un istante, ecco che non si parla più del virus, ma del presunto colpevole della sua diffusione. Con tutto quello che ne consegue, deliberati fenomeni di odio compresi.
“Più sono le parole che si conoscono, più è ricca la discussione politica e, con essa, la vita democratica”, come dare torto a Gustavo Zagrebelsky. Ma, in questa fase di estrema difficoltà, anche le (rinnovate) parole che la descrivono appaiono svuotate della loro stessa anima.
Infatti, parole come “paziente zero”, “pandemia”, “quarantena” che tutti utilizziamo, spesso inconsapevolmente, risultano sfibrate, meccaniche e, in un certo senso, perfino superficiali.
Dentro (né sotto, né sopra) quelle terminologie ci sono persone impaurite, sofferenti, morenti. Allora, soprattutto ora, in cui gran parte dei nostri scambi comunicativi avvengono in uno spazio prevalentemente verbale, è indispensabile che ogni racconto sia intriso di colori, di suoni, di odori.
C’è bisogno di una ricostruzione sociale che transiti dalla cinica eugenetica capitalistica del “tanto muoiono solo gli anziani” all’unica narrazione possibile per il mondo nuovo: “ogni persona vale”.
Quindi, non ci resta che ripartire dal nostro nome, la cosa più intima che abbiamo. Nonostante sia solo una parola, quella parola contraddistingue ciascuno di noi.
Nomi diversi che ci fanno diventare tutti uguali di fronte a un nemico invisibile che, per quanto micidiale, non sa leggere e nemmeno sa come ci chiamiamo. Per andare oltre le differenze sociali, le paure, le rassegnazioni, dovremo quindi ricominciare a chiamarci per nome? Da quasi sessant’anni la risposta è sempre stata lì. Blowin’ in the wind.