In questi giorni, intento a preparare un nuovo corso, ho scandagliato le mie vecchie slide alla ricerca di qualche spunto da attualizzare. Fra le tante “certezze” che raccontavo anni fa, mi ha fatto un certo effetto vedere il grafico con cui sostenevo l’inefficacia di inviare le newsletter nel weekend e il lunedì. Il tutto corredato da orari, tassi di apertura e rapporti di conversione.
Raccontare nel 2023 queste cose si viene presi per vecchi oppure, come va di moda dire oggi, etichettati alla stregua di boomer… anche un bel po’ rincoglioniti.
E già, qual è il senso di schedulare i contenuti quando ogni nostra attività è always on? A questo proposito, quando avete spento lo smartphone l’ultima volta?
Corro il rischio di passare per un romantico dei bei tempi andati (sic!), ma provo ancora molta tenerezza ricordando quando qualcuno ti chiedeva gentilmente di inviargli i documenti sulla “mail di casa”. Esistevano ancora dei confini e, forse, anche la capacità di distinguere i tempi di vita da quelli del lavoro.
Lungi da me passare per un moderno luddista, anzi sostengo con forza il ruolo decisivo delle nuove tecnologie in materia di riscatto sociale per ampie fasce di “esclusi”, tuttavia mi è impossibile sottovalutare il costo umano della rivoluzione digitale. Un prezzo che viene pagato soprattutto a livello individuale.
Come ha indagato Forbes, stiamo andando verso un sistema dove il burnout diventerà una sorta di accettabile normalità. Se un tempo, lo stress cronico cresceva a dismisura dentro contesti in cui la mole di richieste era in disequilibrio con le risorse di cui disponevamo, adesso è l’eccesso di informazioni accessibili che ci manda in crisi.
Infatti, l’infoobesità funge da anestetico nei confronti della motivazione, perché il troppo che siamo chiamati a selezionare finisce per angosciarci, sopraffatti dal paradosso della scelta. Abbiamo infinite opportunità sempre a disposizione, ma nel contempo ci sentiamo sempre più stanchi, completamente svuotati ed esausti, nel tentativo di controllare l’aumento di ansia dovuto a tutto ciò che sappiamo esistere, ma che fisiologicamente non possiamo raggiungere.
Per dirla con le parole del medico austriaco Hans Selye, siamo passati dall’eustress (lo stress che ci consente di “stare sul pezzo”) al distress (lo stress che indebolisce la nostra resistenza e ci porta dritti dritti all’esaurimento).
Le nostre strutture biologiche sono ancora quelle di quando dovevamo sopravvivere fronteggiando, da un lato, le minacce dei predatori e, dall’altro, cercare gratificazioni nel binomio freudiano cibo-sesso.
A parte quelli da tastiera, il pericolo non è più rappresentato dai leoni e dalle altre bestie feroci, ma da un mostro apparentemente mansueto, il sovraccarico di informazioni.
In questo mare magnum della complessità digitale ognuno si arrangia come può, molto spesso improvvisando o, come mi capita di osservare nella generazione dei Post-Millennials, attraverso modalità più prossime all’intuizione che alla precisa cognizione di ciò che si sta facendo.
Ecco allora farsi strada l’insicurezza in ogni decisione che viene assunta, quasi una traiettoria senza più indicazioni del tutto affidabili, perché la cifra delle nostre conoscenze è sempre più intrisa di incertezze. Che tenuta hanno le nostre competenze di fronte alla velocità pressoché istantanea del cambiamento? Possiamo dichiararci tecnofobici e chiamarci fuori? È sufficiente rifiutare di adattarci, cullando il sogno di poter dire un giorno “avevamo ragione noi”?
L’evoluzione umana, da cui deriva anche la rivoluzione digitale, è stata costellata da un continuo susseguirsi di tempi in cui abbiamo imparato, altri dove è stato necessario disimparare e, di nuovo, ci siamo poi spinti a individuare inedite forme di sapere.
“Io non leggo mai, non leggo libri, cose… pecché che comincio a leggere mo’ che so’ grande? Che i libri so’ milioni, milioni, non li raggiungo mai, capito? pecché io so’ uno a leggere, là so’ milioni a scrivere, cioè un milione di persone e io uno mentre ne leggo uno… ma che m’emporta a me?” (Massimo Troisi, Le vie del Signore sono finite, 1987)
Nel bel mezzo del pulviscolo dei bit, dove la sfida è ancora più impari, ci serve avere la consapevolezza dei nostri limiti per comprendere dove possiamo umanamente arrivare. Impossibilitati, come siamo, a pensare a un infinito in atto, la nostra integrità mentale passa da qui e, mi sia concesso, anche la nostra stessa sopravvivenza di intelligenze biologiche.
Foto di Praveen kumar Mathivanan