Nel diluvio di parole che inondano la rete, c’è ancora spazio per una considerazione sullo stato di salute della lingua scritta? Non so se sia più di un’impressione, ma mi pare che le rete sia ormai ad un passo dal word overload.
Infatti, sempre più frequentemente noto come la supremazia dell’apprendimento simultaneo, per via visiva, su quello sequenziale, mediato dalle parole, abbia ridotto queste ultime ad un mero maquillage degli spazi vuoti. Quasi una sorta di “stucco” interstiziale.
Sicuramente, le dinamiche di internet, prevalentemente improntate all’istantaneità, privilegiano fruizioni rapide e immediate. In questo senso si spiega anche il successo delle infografiche sull’equivalente torrente di parole. La rete ha “surriscaldato” la comunicazione sotto le vampate del demone impazzito dell’istantaneità.
In passato, ogni grande rivoluzione tecnologica ha avuto il suo corrispettivo culturale. Dalla dimensione orale della comunicazione (unica modalità di “dialogo” fino a quel momento), si è passati all’invenzione (o scoperta?) della scrittura. Per secoli è stato prodotto un sapere manoscritto che si è poi trasformato, quasi 5.000 anni dopo, in una conoscenza trasmessa in modalità tipografica.
Dalla stampa gutenberghiana fino ai nostri media elettronici sono trascorsi appena quattro secoli. Per dirla con Montale, il tempo si è come “sfarinato” e i nuovi strumenti di comunicazione hanno sempre avuto meno tempo a disposizione per decantarsi. Per esempio, la televisione ha impiegato solo trent’anni per trasformarsi in qualcos’altro grazie al legame tecnico con i lettori ottici.
Per internet, i confini sono tecnologicamente meno visibili. Nella transizione dal web 1.0 al web 2.0 la differenza si è maggiormente cristallizzata sul versante esperienziale piuttosto che su quello dei circuiti integrati. Forse, per la prima volta nella storia dei mass-media, si può parlare di un qualcosa che assomiglia a una “rivoluzione permanente”.
Se vediamo queste trasformazioni con gli occhiali delle parole, si può trarre già una prima valutazione. Un libro di carta di oggi è sostanzialmente identico ad uno del Cinquecento, ma non è così per tutti gli altri mezzi comunicativi. I supporti si sono trasformati sotto l’incalzare del “frullatore digitale”. Il vinile (a parte la collezione di qualche “nostalgico”) è stato distillato dentro i lettori MP3, la radio e la televisione sono sempre meno analogiche e sempre più digitali (terrestri e no).
Ancora una volta si conferma la predizione di McLuhan. Il medium è il messaggio stesso e, oggettivamente, è impensabile ritenere che non ci siano effetti sul senso e sull’uso delle parole. Ma anche sulla struttura stessa della lingua.
Già Platone metteva in guardia circa la “marginalizzazione” della memoria operata dalla parola scritta. Invece, in un’epoca come la nostra in cui i messaggi viaggiano più veloci del messaggero, la “violenta” accelerazione nel trasporto delle informazioni “rompe” di fatto la stabilità idiomatica.
Almeno tre sono le cause di questa polverizzazione della comunicazione basata sulle parole.
In primo luogo l’ipertesto. I link indirizzano il lettore verso nuovi percorsi, superando la sequenzialità che per secoli è stata la portante fondamentale della conoscenza scritta. Una parola dopo l’altra e una frase di seguito alla precedente cessano di essere il canone principale dell’apprendimento.
Le abbreviazioni. Il contagio provocato dalla “generazione del pollice”, avida di messaggini sempre più criptici (emoticons a parte), ha pervaso anche scritture “meno spontanee” e, teoricamente, più riflessive, come ad esempio le mail elettroniche. I xò, i x’, i cmq, le innumerevoli varianti del TVB in tutte le loro declinazioni, sono una specie di assalto frontale al cuore della lingua. Per non parlare degli “odiosi” (mi assumo la piena responsabilità dell’affermazione) puntini di sospensione (spesso incolonnati in una lunghissima serie di “formichine”, in luogo dei classici tre, suggeriti dalla regola) che rinviano a qualcosa che deve essere interpretato nella mente del corrispondente.
Da ultimo, ma forse il fenomeno ha portate più devastanti delle precedenti, internet ha provocato nei fatti una vera e propria “occidentalizzazione” della lingua, peraltro in una sola direzione. Quella anglosassone.
L’inglese è la lingua di internet. Per essere più spietati circa le conseguenze, si tratta di una vera e propria lingua killer che uccide per dissanguamento gran parte delle altre. A parte l’invasione dell’idioma d’oltre oceano o d’oltre Manica nel vocabolario nostrano, va anche considerato l’aspetto della crescente italianizzazione dei vocaboli inglesi.
Attualmente, si valuta che nel mondo esistano dalle 5.000 alle 6.700 lingue. Entro questo secolo, ne spariranno almeno la metà. Si sa che una lingua che scompare non rappresenta solo un danno, per così dire “grammaticale”, ma si traduce nella perdita di un pezzo di cultura. Ed è noto che non esistono “culture” autonome o marginali, ma un sistema globale in cui ogni parte è indispensabile al tutto. Come ha brillantemente sintetizzato Ken Hale del MIT, lasciare morire una lingua equivale a “sganciare una bomba sul Louvre”.
Forse, sono andato troppo avanti. Mi piacerebbe però pensare che la caratteristica autopoietica di internet potesse ancora trovare nel suo pharmacon l’antidoto al degrado della parola. Allo stesso modo mi è chiaro anche il suo opposto: la sconfitta della parola (e, in senso lato, di un’intera lingua) può solo generare violenza. A quel punto, la fine della storia sarà irrimediabilmente muta.