Dopo il tradizionale e immancabile Buon Natale, l’ambizione di una parola come “migliore” luccica più di ogni addobbo. “Tanti auguri per un duemilaquindici migliore dell’anno che sta per finire!”, ripetiamo a noi stessi e a tutti quelli che incontriamo.
Tutti gli anni il medesimo rituale, almeno da quando il venditore di almanacchi l’ha fissato per sempre nella nostra memoria. Così, senza nemmeno dubitare per un attimo della storia, spicchiamo il volo con la leggerezza di un’esistenza costantemente alla ricerca di un divenire diverso. Più bello, più sfavillante, più felice.
Tutti gli anni, con l’incredula speranza che la profezia si avvererà.
C’è da chiedersi dove vadano a finire le parole ben auguranti, una volta pronunciate. Se troveranno, come le onde del mare, una riva, oppure se evaporeranno fino a diventare delle nuvole che prima o poi si dissolveranno.
Che ci crediamo o no, quelle che conserveremo per i prossimi trecentosessantacinque giorni non avranno l’affanno dell’augurio di una maggiore ricchezza, non saranno effimere risoluzioni di Buon Anno pronunciate automaticamente, senza nemmeno guardarsi negli occhi. In definitiva, non avranno nulla di materiale.
Ci rimarranno, invece, dei valori veri come quello di avere imparato qualcosa di nuovo da una persona che non vedevamo da tempo o, con la stessa intensità, il miliardo di parole cristallizzate in un abbraccio inatteso. Tutto qui.
Alla fine non saranno un poco di fortuna e nemmeno qualche soldo in più, quello che ci fa andare avanti davvero è il fascino del futuro. E cos’è il futuro se non il nostro sapere e il nostro essere in un tempo a noi sconosciuto?
“Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?”.
“Appunto”, rispose il venditore di almanacchi.