La tanto criticata decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul cosiddetto diritto all’oblio, ovvero la facoltà di chiunque di chiedere la cancellazione dal web delle proprie tracce “scomode e compromettenti”, comincia a “carburare” e Google è stata letteralmente invasa di richieste.
Nel suo ultimo rapporto, il colosso di Mountain View ha dichiarato di aver ricevuto quasi centocinquantamila richieste di rimozione di link. L’Italia, come forse c’era da aspettarselo, è fra i primi della classe, insieme a Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Nel complesso, le domande di cancellazione vengono accolte nella misura del 50%. A questo proposito è curioso notare come invece le richieste italiane, fino a questo momento, siano state rigettate in gran parte (ne sono state validate “solo” il 24,2%).
Fra i siti che danno più fastidio a quelli che vogliono far dimenticare le proprie condotte (poco cristalline?) ci sono Facebook, Profile Engine e Badoo. Un discorso a parte per YouTube e Google Gruppi che dispongono già di una procedura loro per la cancellazione diretta dei contenuti.
Fino qui i fatti, ma senz’altro una siffatta normativa merita anche una riflessione etico-morale che forse i giudici che siedono a Strasburgo non hanno approfondito adeguatamente. Di certo, se avessero impiegato il loro tempo per chiedere a Google perché ha messo a disposizione dei governi ogni nostra informazione, dalle mail alle cronologie di navigazione, ci avremmo guadagnato tutti, se non altro in diritti.
L’impianto censorio si basa sul fatto che i motori di ricerca sono troppo bravi a trovare rapidissimamente tutto di tutti e quindi vanno limitati. Per quanto riguarda i mezzi “antichi” come i giornali di carta, nonostante anch’essi potrebbero avere pubblicato la medesima notizia oggetto dell’occultamento, al momento (lo dico piano, non si sa mai) non pare ci siano provvedimenti particolari in corso. La cosa è parecchio assurda se si pensa che tutto si basa non sul contenuto, ma semplicemente sul mezzo con il quale quest’ultimo viene veicolato. Ovvio, è più dispendiosa in termini di tempo, ma nulla vieta che una data ricerca possa essere compiuta all’interno degli archivi di qualsiasi quotidiano o, più verosimilmente, nell’emeroteca della biblioteca sotto casa.
Cosa succede allora se trovo nelle parole di carta la notizia “incriminata”, la scansiono e la rimetto in rete? Questi moderni inquisitori, dopo aver nuovamente richiesto a BigG il dissolvimento di tutti i link che la individuano, mi ordinerebbero anche di bruciare tutti i miei ritagli di giornale? Attenzione, perché se qualcuno ha in testa questa strada, la storia insegna che quando si comincia a dar fuoco ai libri prima o poi si arriva a bruciare le persone.
Già, la storia. Gutenberg ha fatto la rivoluzione, Internet pure. La stampa a caratteri mobili ha permesso una diffusione del pensiero mai vista fino a quel momento, con la stessa dirompente forza Internet ha letteralmente staccato le idee dai supporti ingombranti (come la carta, ad esempio), consentendo la loro rapida condivisione a livello planetario.
Chi stabilisce poi se le informazioni da cancellare siano davvero così “inadeguate, irrilevanti o non più rilevanti”, come dice la Corte di Giustizia? E ancora, secondo quale criterio? Recentemente Wikipedia ha ricevuto da Google una cinquantina di richieste di cancellazione e fra queste le voci riguardanti Renato Vallanzasca e la banda della Comasina. Internet, volenti o nolenti, concorre a determinare il flusso della storia e credo che i vuoti di memoria non facciano bene a nessuno. Né ora, né in futuro.
A parte che la norma può far valere la propria efficacia solo in Europa, come la mettiamo con il resto del mondo? Esportiamo in tutte le nazioni il “modello cinese”? E se decidessi di scandagliare il deep web per trovare queste informazioni “spiacevoli”? Il fatto vero è che qualsiasi contenuto nel momento stesso in cui abbandona la nostra tastiera non lo controlliamo più e, nello stesso tempo, diventa replicabile all’infinito.
Il web non è una costellazione fatta di soli profili Facebook in cui raccontiamo e facciamo vedere di noi unicamente quello che ci fa comodo (e a volte non è nemmeno vero questo), ma una conquista di libertà che si contrappone al Grande Fratello di orwelliana memoria. Il nostro passato non si cancella con un click come in un videogioco, continua a esistere perché fa parte della storia, grande o piccola che sia.