Nelle mie scorribande alla ricerca delle tecniche più efficaci per la formazione aziendale, mi piace invitare i partecipanti a presentarsi con un nome di fantasia e di indicare un lavoro che ancora non esiste, ma che fra qualche anno potrebbero addirittura andare a fare.
Ora, per il nome non ci sono mai grosse difficoltà (dire di chiamarsi Peter Pan, anziché Paolo, è tutto sommato facile), mentre tirare fuori un “lavoro (ancora) inesistente” spalanca sovente le porte della scena muta.
Allora, per stimolare la discussione ripiego sul più abbordabile (forse) quesito inerente il loro lavoro attuale e su come riuscirebbero a spiegarlo alla nonna o, addirittura, a un marziano.
Non voglio generalizzare, ma mi accorgo come anche in questo caso manchi la consapevolezza della transizione da un paradigma industriale ormai al collasso (riscaldamento globale, disuguaglianze di genere, maggiori diritti per le merci che per le persone) a un mondo del lavoro sempre più governato dai flussi delle informazioni e dalle estese connessioni del sapere.
E, forse, nemmeno la civiltà dei dati, da sola, è in grado di farci comprendere, con una buona dose di approssimazione, il futuro che ci attende. Ecco perché una delle poche possibilità (o speranze) che abbiamo è quella di far esplodere la creatività, pena la deflagrazione del principio stesso di sopravvivenza.
Purtroppo, il pensiero dominante è ancora largamente lineare e, sotto molti aspetti, incardinato allo status quo. Riferirsi alla mansione di “cameriere” alla stregua di un lavoratore che porta dei piatti dalla cucina ai tavoli in sala significa, nel XXI secolo, aver perso di vista i compiti che costantemente, e senza soluzione di continuità, vengono affidati alle macchine. Per un robot, trasferire delle pietanza da un punto A a un punto B è letteralmente un gioco da ragazzi.
Allora, persone contro macchine?
Se i termini sono quelli della sfida, in un’arena dove il “tocco umano” si ritiene non faccia la differenza, le macchine non potranno che prendere il sopravvento (non si ammalano, non vanno in ferie, non fanno cadere i piatti), marginalizzando il lavoratore in carne e ossa.
Le cose cambiano, invece, se la competizione si sposta su un terreno operativo amorfo e, per diversi aspetti, olistico. In questo caso, le regole sono quelle dell’energia creativa che, per sua natura, è non-lineare, liquida, disruptiva.
Ecco perché diventa necessario pensare ai lavori del futuro nei termini di una continua distruzione creativa. Del resto, senza nemmeno approfondire più di tanto le tematiche della filosofia della scienza e anche solo limitandoci a prendere in considerazione la nostra storia recente, il gommista ha sostituito il maniscalco e l’automobilista ha preso il posto del cocchiere.
Per altro verso, l’evoluzione tecnologica non riguarda solo il fatto di fare le stesse cose con strumenti nuovi, ma la modifica sistematica di come (ri)pensiamo noi stessi dentro quel processo.
La transizione dal telegrafo al telefono e, successivamente, allo smartphone, ci ha fatto concepire nuovi livelli comunicativi, così come il passaggio dall’alogenuro d’argento ai pixel ha trasformato la nostra idea di fruizione dell’immagine (è ancora solo una fotografia?).
Ecco quindi che interrogarsi sui lavori che verranno non significa giocare con la fantasia, ma su come immaginare gli “spazi” che non potranno essere colonizzati dalle macchine. Manco a dirlo, saranno quelli in cui il differenziale sarà costituito dalla creatività, dalla leadership, dall’umanità. Ovvero, un concentrato di filosofia e informatica che, detto in altri termini, si traduce in “più high tech uguale a più high touch”.
Il senso della formazione aziendale è capire l’innovazione
La strada che porta a domani è inevitabilmente costellata di domande (da qui il quesito impertinente che pongo all’inizio dei miei corsi) dove il salto di immaginazione diventa fondamentale per comprendere, in definitiva, che ne sarà di noi.
Significa sostituire “l’abbiamo sempre fatto così” con il più elettrizzante “lo si può fare in un altro modo”, cominciare a demolire l’ovvio laddove i problemi sono diventati talmente grandi da non poter essere più visti, analizzare a fondo i settori che stanno mostrando variazioni estremamente irregolari, capire come la passione per un metodo possa trovare caratteri di concretezza anche in altri ambiti.
Solo in questo modo possiamo pensare (o, forse, illuderci) di comprendere l’innovazione. Serve, come si dice, una specie di “pensiero di sistema” che allinei sulla stessa traiettoria di mira il tutto e il niente, i fattori di base e la loro ricombinazione, i risultati e le loro implicazioni etiche.
Occorre partire dall’immaginazione con lo scopo di dissociare il pensiero lineare. Un oggetto di design nasce da uno scarabocchio su un tovagliolino di carta, un business plan prende vita da un diagramma abbozzato alla lavagna, un libro mette insieme un’infinità di appunti inizialmente incomprensibili.
In tutto questo ci vedo il significato profondo dell’apprendimento continuo. Non solo un nugolo di nozioni per gestire il presente, ma un esercizio per illuminare i problemi del futuro e imparare a sognare.
Beh Sergio,
Leggo sempre con attenzione i tuoi articoli.
Sono sempre di ispirazione anche nel mio settore dell’allenamento online per il ciclismo.
Grazie 1000.
Grazie a te Francesco 😉