Ormai con una certa continuità, evito deliberatamente di commentare le peggiori idiozie che vedo scorrere nelle timeline dei miei social. Nessuno escluso.
Ciò che fino a qualche tempo fa mi mandava in bestia e mi faceva collegare le parole alla tastiera prima ancora che ai neuroni, oggi lo vedo più come un sottoprodotto del bisogno molto umano di comunicare.
In sostanza, la presenza costante in rete del miscuglio micidiale costituito da ignoranza, invidia e falsità di ogni genere, non si manifesta perché internet ci ha all’improvviso strappato il cervello e trasformati in automi fatti esclusivamente di nervi iperattivi, ma perché è di fatto il riflesso di ciò che siamo sempre stati.
Da un’altra angolatura, la stessa confusione che ancora oggi esiste fra le definizioni di social network e di social media (utilizzate in maniera interscambiabile dalla comunicazione generalista e non solo), non fa altro che alimentare questa diffrazione.
Social network o social media?
Semplificando, i social network sono sempre esistiti. Almeno, da quando i nostri antenati preistorici si scambiavano informazioni, pur in assenza di una struttura linguistica regolamentata come la intendiamo oggi. Al contrario, i social media sono “un’invenzione” piuttosto recente e hanno consentito a una miriade di abitanti delle “caverne” (spazi fisicamente definiti) di dialogare fra loro a distanza, oltre al (semplice) faccia-a-faccia.
Ecco perché rimango piuttosto interdetto quando leggo i roboanti annunci del “personaggio famoso” di turno che pianta baracca (social) e burattini (social pure loro) nel nome dell’impossibilità di conviverci.
Dire addio ai social non risolve mai completamente i problemi del fuggiasco perché, in definitiva, esprime solo la sua decisione di voler scappare dagli esseri umani. Allo stesso modo, è impossibile uscire da internet perché siamo, in un certo senso, internet da sempre.
Allora, il rito sacrificale del profilo social e, più drasticamente, del router, con tanto di dichiarazione che sa tanto di predestinato o addirittura di eletto, vorrebbe far credere all’imminente approdo “dell’eroe” in altri universi fatti di verità assolute, autenticità indiscutibili, illuminazioni esistenziali.
L’iperconnettività ci ha fatto scoprire come le reti sociali dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori, spazialmente definite e per molti aspetti sovrapponibili a quelle dei sistemi biologici, siano poi entrate in conflitto col concetto, tutto analogico, di gerarchia. Il terrapiattista, solo per il fatto che utilizza lo stesso mezzo, si sente autorizzato a disquisire al cospetto del ricercatore della Nasa, con tutta la supponenza di cui è capace. Addirittura, con la strafottenza tipica del “laureato all’università della vita”, se ne esce convinto di aver surclassato il laureato vero.
Tuttavia, le reti costituiscono la nostra costante evolutiva poiché sono sempre state indispensabili per la diffusione delle informazioni e per la stessa sopravvivenza della specie umana. Per ora, la tecnologia di internet è solo l’ultima frontiera di questa crescita, e non fa altro che replicare esponenzialmente il nostro bisogno di comunicare, fornendo un mezzo che, nella sua neutralità, diffonde anche tutto ciò che è maligno.
Internet o web?
Un altro equivoco è quello di far coincidere internet con il web, che sarebbe come dire che i tubi dell’acquedotto sono la stessa cosa dell’acqua che trasportano.
Ne deriva che, a conferma di quanto sostenuto finora, l’algoritmo che ci fa vedere (o non vedere) determinati contenuti, è in tutto e per tutto un prodotto umano. E come tale, anche nella più immaginabile delle correttezze possibili, rifletterà sempre i desiderata, le convinzioni, le pulsioni dell’individuo che l’ha progettato che, nei casi più estremi, coincidono con quelle delle culture sociopolitiche a cui appartiene e dalle quali spesso viene retribuito. O siamo convinti per davvero che Google ci mostri esclusivamente i contenuti affini ai nostri obiettivi di ricerca e non anche quelli che interessano agli uffici di marketing?
Individuo o comunità?
Il comportamento umano è iper-individualistico anche quando i vantaggi per la comunità nel suo insieme (individuo compreso) sarebbero ben superiori. Così, il “marketing di noi stessi” fa sì che ce ne freghiamo del riscaldamento globale, dell’invasione dei rifiuti, del progressivo soffocamento da polveri sottili.
Sui social, questa stessa mentalità fa imboccare l’unica direzione che, in assenza totale di sapere e di conoscenza, consente comunque di “emergere”. Ovvero, quella che porta a discutere essenzialmente le persone (sei nero, sei brutto, sei grasso) e non, come sarebbe giusto fare, le idee.
Quindi, tutte le volte che qualcuno dice di uscire dai social, in realtà non fa altro che scappare da una “cultura offline” che si riverbera anche dentro i social.
Se non ricominciamo a investire seriamente nella funzione propedeutica della scuola, magari ricordandoci anche delle lezioni rivoluzionarie del “maestro d’Italia” Alberto Manzi, cancellarsi da Facebook & Co. equivale a credere che si possa andare in orbita staccandosi dalla Terra semplicemente con un balzo.