Dopo oltre un anno e mezzo di formazione (quasi) esclusivamente erogata in modalità remota, possiamo affermare di aver capito un po’ più di cose. Tutta esperienza che ci servirà per migliorare le nostre tecniche di insegnamento, anche quando si ritornerà a operare nella cosiddetta aula fisica.
Per altro verso, è mia convinzione che anche in questo settore finirà per prevalere un modello ibrido, dove l’e-learning non sparirà mai del tutto. Non fosse altro per i notevoli vantaggi che ha introdotto in termini di flessibilità (oraria e di organizzazione) e di risparmio (uno su tutti quello relativo alla mancanza di spostamenti).
Ad ogni buon conto, una volta accantonate le attenuanti “dell’emergenza” e va anche detto che tutti (chi più, chi meno) ci siamo trovati impreparati di fronte alla “novità”, ritengo ci siano elementi sufficienti per fare un bilancio (costruttivo) di questa “avventura”.
Il disinteresse genera frustrazione
Per quanto il docente possa essere appassionato della sua materia, parlare per diverse ore di fila a una selva di webcam spente farebbe scoraggiare anche un premio Nobel.
A parte gli aspetti legati alla buona educazione relazionale (comunque, sempre parte integrante dell’insegnamento), il formatore avverte fin da subito un notevole affaticamento dovuto alla frustrazione di non avere la minima idea di cosa stia succedendo dall’altra parte (Staranno cucinando? Giocheranno col cane? Ci sarà qualcuno?).
Sia chiaro, anche nell’aula fisica ci si distrae (è del tutto naturale e inevitabile), ma in quel contesto i segni rivelatori del disinteresse (giocherellare con lo smartphone, chiacchierare col vicino, appisolarsi) sono evidenti all’insegnante che può (e deve) riprendere in mano la situazione proponendo una pausa, un cambio di argomento, un’attività più coinvolgente.
In questi mesi ho sentito le scuse più assurde pur di non palesarsi in video e, fra tutte, vince senz’altro questo messaggio in chat “Prof non mi funzionano né la webcam, né il microfono”, che scritto da un partecipante collegato con l’iPhone 11, come minimo fa sospettare la presa in giro.
Ora, non è mio compito vestire i panni dell’istituzione, ma la situazione potrebbe migliorare grazie all’introduzione di tre semplici regole:
- la webcam va sempre tenuta accesa, pena l’invalidazione delle ore obbligatorie previste dal piano formativo
- nel caso in cui due o più partecipanti si trovino nello stesso spazio fisico, è necessario che ognuno si colleghi col proprio dispositivo
- strutturare i corsi di formazione online con un monte ore decisamente inferiore ai corrispondenti corsi che si tengono nell’aula fisica, ma in tutto e per tutto certificabili come questi ultimi
Cambia la modalità, non lo scopo della formazione
Se, come credo, lo scopo della formazione debba continuare a essere quello di trasferire “nuove” conoscenze, quale migliore occasione dell’insegnamento remoto per sperimentare tecniche per molti versi ancora inedite?
Per dirne una, la possibilità di sfruttare la rete anche in modalità operativa. Mi spiego meglio, dato che le competenze digitali (indispensabili ad ogni livello professionale) non tarderanno a liberarsi dalla sempre più ridicola descrizione curriculare “Ottima conoscenza di Windows e di Word”, potrebbe essere una buona idea quella di verificare l’apprendimento anche mediante il confezionamento di una mail da inviare all’indirizzo del docente.
Quest’ultimo potrà così valutare, oltre alla padronanza della materia, anche la capacità comunicativa che, esperienza mi dice, non è per niente scontata. Infatti, un conto è rispondere a un questionario “a crocette”, tutto un altro paio di maniche è imbastire un testo su quanto appreso.
Per rendere tutto più “intrigante” mi piace proporre questo esercizio come se fosse, mi si passi l’espediente lugubre, una specie di rapporto post-mortem. Vale a dire una sorta di autopsia del corso: cosa ho capito, cosa non ci azzeccava per niente e cosa, eventualmente, avrebbe potuto “salvare la vita” al corso stesso.
Anche in questo caso, l’obiettivo si raggiunge solo se da parte dei partecipanti (e dei loro datori di lavoro) c’è consapevolezza circa l’autorevolezza della funzione formativa. Va da sé che senza una chiara disposizione (con tanto di definizione dei doveri e delle eventuali sanzioni) tesa a delimitare il corso “in remoto” da tutto il resto (per un certo numero di ore il discente fa quello e solo quello), nulla potrà servire a migliorare la situazione.
In estrema sintesi, il solo fatto di partecipare a un corso di formazione a distanza non significa essere autorizzati a fare contemporaneamente altre mille cose.
Condividere il senso di responsabilità
La ricetta ideale per il disastro è impostare il corso remoto secondo la modalità attiva (il docente che spiega) e passiva (i discenti che ascoltano).
In un contesto “a distanza” è più che mai indispensabile “capovolgere” l’aula, in maniera tale che i ruoli siano equalizzati sotto il profilo delle responsabilità. Se da una parte c’è il ruolo del docente (che si presume sia chiaro), dall’altra deve corrispondere una partecipazione che non può essere esclusivamente passiva.
Questa è la ragione per cui faccio nominare un capoclasse dai partecipanti (alla maniera del quiz televisivo L’Eredità, “Punto il dito contro…”) che cambia anche più volte durante il corso. Il suo compito è quello di decidere e gestire i tempi delle pause, oltre che regolare i turni degli interventi nelle discussioni.
Le aule remote ci hanno fatto toccare con mano le trasformazioni che subirà la formazione professionalizzante obbligatoria, anche quando ritornerà a esistere in larga parte all’interno di uno spazio fisico.
Fare il punto, a tutti i livelli, sulle difficoltà e sulle opportunità che sono state riscontrate in questi mesi, sarebbe un’ottima occasione per rendere tutto il sistema produttivo più competitivo. A costo zero.