“Quale lavoro, che ancora non esiste, potresti andare a fare fra un paio d’anni?”, è la domanda che pongo, a mo’ di rompighiaccio, nei miei corsi agli apprendisti.
Pur nella consapevolezza che l’evoluzione tecnologica impatterà su gran parte delle attuali occupazioni, specie su quelle prettamente manuali, il quesito rimane spesso senza risposta. Quelli della Generazione Z, stante la dimestichezza (nativa) con gli strumenti digitali, faticano a cogliere la portata di “diavolerie” come ChatGPT, Midjourney e compagnia cantante. Nella migliore delle ipotesi ne hanno “sentito parlare”, ma non si capacitano circa la loro effettiva (e fattiva) portata, ovvero se faranno sparire dei posti di lavoro (magari proprio quelli che stanno svolgendo in questo momento) e contribuiranno ad aggravare le disuguaglianze o, di contro, se tutto questo vortice getterà le basi per lavori meno alienanti e la nascita di una società maggiormente inclusiva.
Gira e rigira, torna in ballo l’incognita del futuro che ci attende. Un buco ancora più nero soprattutto per chi, come loro, ha oggi vent’anni. Se per questa generazione, lo smartphone è una sorta di oggetto di natura, perché lo conoscono da quando sono nati e, pertanto, per loro è come se fosse sempre esistito, per altri versi colgo una preoccupante impreparazione ad affrontare il mondo prossimo venturo (in sostanza, quello di domani o domani l’altro).
Non che la mia generazione avesse chissà quali “visioni”, ma su versanti anche molto contrapposti erano comunque vive le tensioni ideali che, con tutti i limiti dell’età, permettevano di traguardare una possibile trasformazione delle dinamiche sociali. E senza dubbio, il lavoro era una delle priorità.
Quale mondo del lavoro lasciano immaginare le attuali tendenze basate sull’intelligenza artificiale?
Le liquidità delle traiettorie esistenziali, tanto care a Bauman, hanno già messo in luce la corsa verso schemi standardizzati, peraltro di molto precedenti a questa nuova ondata tecno-rivoluzionaria. Infatti, sia il post-industriale che il post-moderno trovano un punto di convergenza in un sincretismo d’intenti che considera ogni istanza come una merce, compreso l’essere umano.
Per questo motivo, non è affatto escluso che ben presto ci troveremo a fare i conti, da un lato con la “riscossa dei piccoli” che avranno l’occasione di attingere a innumerevoli strumenti e a una vastità di contenuti personalizzati senza precedenti, riducendo di molto i costi e diventando così più competitivi, dall’altro lo scenario potrebbe anche assumere connotati diametralmente opposti per effetto della “cultura imperialista” delle multinazionali che padroneggiano gli algoritmi di AI. Andare in una direzione o nell’altra dipenderà dai sistemi di regolazione che il decisore politico (assunto qui come soggetto non colluso con i vari poteri) intenderà adottare.
Altre possibilità? Allo stato delle cose, solo se l’agenda etica includerà anche un sistema di “ecologia della tecnologia”, ovvero l’inserimento della maggiorata funzionalità delle macchine in un’ottica di beneficio collettivo (tipo l’acqua pubblica), sarà possibile far prevalere il concetto di giusta retribuzione e garantire ai lavoratori autonomia, sicurezza, soddisfazione.
Ma anche quest’ultima previsione non potrà sedimentarsi sullo status quo. Ovviamente, ciò vale sia per le aziende che per coloro che vi lavorano.
La pandemia ci ha fatto “scoprire” la fluidità dei cosiddetti “luoghi in cui lavorare” e oggi la scrivania, il simbolo per eccellenza del mondo analogico, non la vediamo più con gli stessi occhi di prima. Sono in atto trasformazioni persistenti che in ogni ambito confermano il valore strategico della capacità di risolvere problemi complessi, dell’abilità di porsi delle domande originali, dell’apprendimento attivo e continuo attraverso moduli formativi sempre più incentrati sugli effetti del cambiamento.
Quindi, se le intelligenze artificiali le possiamo governare solo grazie al pensiero critico, alla capacità di apprendere in continuazione, alla rimodulazione dei vecchi processi, va da sé che anche tutto il sistema di selezione e accesso al lavoro dovrà rigenerarsi con presupposti più attuali. Ben presto le informazioni soggettive lasceranno il posto (molto più di quanto non succeda già oggi) alle profilazioni dei candidati con l’aiuto delle AI, proprio perché si andrà alla ricerca di competenze trasversali difficili (direi impossibili) da individuare in un colloquio e ancor meno in quel residuato medievale del curriculum vitae in formato europeo.
Tornando da dove ero partito, l’esercizio di immaginare un lavoro che ancora non esiste, ma che con ogni probabilità si materializzerà da qui a breve, è una domanda che ha lo scopo di stimolare a pensare come farsi trovare pronti. Detto in altri termini, il futuro del lavoro sarà guidato da almeno tre fattori: la velocità delle trasformazioni, l’adozione dell’intelligenza artificiale a ogni livello, la disponibilità di competenze non convenzionali.
Quindi, la formazione sarà fondamentale per insegnare come tenere le antenne ben dritte e, soprattutto, essere da stimolo per aggiornare continuamente le proprie abilità.
Foto di Lucrezia Carnelos