Ci sono un italiano, un francese, un tedesco e… no, questa non è una barzelletta esilarante sulla presunta superiorità di un popolo rispetto a un altro. La faccenda in questione è molto meno divertente e (come nasconderlo?) anche piuttosto preoccupante.
Ricapitolando, ci sono un copywriter, un interior designer, un avvocato e un webmaster che, “tra un bicchier di coca ed un caffè”, non parlavano di “anarchia e libertà”, ma dell’argomento che da qualche mese tiene banco ovunque: il dilagare delle piattaforme basate sull’intelligenza artificiale.
Come ha ben sottolineato Luciano Floridi, professore di Etica Digitale a Bologna e Oxford, i timori nascono dall’essere riusciti a “ingegnerizzare strumenti che, a intelligenza zero (ChatGPT e Midjourney non capiscono quello che scrivono o disegnano, NdR), fanno cose che se le dovessimo fare noi richiederebbero tanta intelligenza… siamo riusciti a scollare la necessità di agire dalla necessità di essere intelligenti, ciò non è mai avvenuto nella storia umana”.
Evidentemente, il rischio di perdere il proprio lavoro non riguarda solo i quattro ipotetici professionisti seduti al tavolino di un bar, ma tutti quei professionisti che, in un modo o in un altro, si occupano della creazione di contenuti.
Se il rullo di tamburi che ha annunciato l’oltremondo del metaverso lo sentiamo sempre più in lontananza (almeno stando a ciò che vediamo oggi), non si può dire lo stesso del fragoroso arrivo dei chatbot tutto fare che in un battibaleno costruiscono “dal nulla” testi, immagini e motivi musicali.
A fronte del vertiginoso trend di crescita di questi nuovi “giocattoli” (paragonabile solo alle performance di TikTok e Instagram), si registrano continui licenziamenti nell’industria dei media e in tutti gli ambiti in cui il risultato finale del lavoro è il frutto esclusivo della codificazione di informazioni.
Da un punto di vista strettamente tecnico ci dobbiamo aspettare ulteriori perfezionamenti dell’algoritmo, per cui nessun settore può dirsi del tutto al riparo dal ciclone che eventualmente si abbatterà.
Se da un lato potrebbe rincuorare il fatto che i contenuti generati dall’intelligenza artificiale mancano (ancora) di empatia umana, dall’altro arriva immediatamente la saetta che incenerisce all’istante l’effimero sollievo: l’utente finale, se può risparmiare, è poi così scontento di un prodotto un po’ meno stravagante derivato dalla materia grigia di un creativo, ma comunque accettabile?
Girando la frittata, abbiamo davvero bisogno di scorgere un sistema di valori dentro una lettera commerciale? In un rendering per ottenere una concessione edilizia? In un jingle musicale che accompagna un video (anche quest’ultimo sviluppato da un non-umano)?
Fedele al precetto di non fare azzardi su scenari futuribili, mi pare comunque che allo stato delle cose i settori più a rischio siano indubbiamente quelli basati su procedure banali, ripetitive e con scarso (o nullo) valore umano aggiunto.
Nel breve periodo, chi lavora con la creatività, il pensiero critico e l’intelligenza emotiva può dormire sonni relativamente tranquilli. Non perché le macchine già adesso non siano in grado di emulare queste peculiarità con una buona dose di precisione, e di gran lunga più velocemente di un umano, ma soprattutto in ragione del fatto che i modelli di intelligenza artificiale che conosciamo, richiedono (ancora) un tocco di intelligenza superiore, ovvero la supervisione di un essere biologicamente pensante.
Come ti sgamo il furbetto di ChatGPT
Qualche mese fa, Darren Hudson Hick, professore della Furman University, ha fatto sudare freddo una folta schiera di studenti convinti di aver trovato il vaso di Pandora dentro ChatGPT. Infatti, il docente ha dato notizia su Facebook di come sia riuscito a scoprire l’utilizzo del chatbot nella stesura di un tema su “Hume e il paradosso dell’orrore”.
Come c’è riuscito? Prima di tutto la sua conoscenza della materia gli ha fatto immediatamente percepire che c’era qualcosa che non filava, ancorché il testo fosse stato redatto in maniera sintatticamente corretta, poi ha trovato conforto delle sue perplessità grazie a un rilevatore GPT sviluppato dagli stessi ricercatori di OpenAI. Click, taaac, boom!
In sintesi, le intelligenze artificiali “creano” cose strabilianti, fanno risparmiare tempo, ma c’è ancora un bel po’ di margine per “finire il lavoro” da parte di un essere umano.
Pertanto, anziché cercare di fermare il meteorite a mani nude, appare più intelligente (è il caso di dirlo) ibridizzare i processi, che utilizziamo abitualmente, per migliorarli e accelerarli.
In ogni caso, è chiaro che ci troviamo di fronte ad un’altra trasformazione epocale come è già avvenuto con le macchine a vapore, l’elettricità, internet. Ed è altrettanto certa la scomparsa di alcune occupazioni prettamente “meccaniche e ripetitive”. Così come nessuno (credo) sia dispiaciuto per la scomparsa del lampionaio, allo stesso modo nessuno (credo, bis) sentirà la mancanza del casellante che riscuote il pedaggio.
Foto di DeepMind