La relazione logica fra causa ed effetto ce la insegnano fin dai primi anni della scuola elementare e non c’è dubbio che la sua conoscenza sia propedeutica allo studio di tutte le altre materie. Verificare che si accende la lampadina (effetto) se aziono il tasto dell’interruttore (causa) è il presupposto essenziale per comprendere la scienza, la storia, la geografia.
Le cose si fanno più complicate quando applichiamo questo principio alle nostre faccende economiche. In questo caso, lavoro (causa) quindi guadagno (effetto) può diventare spesso fonte (causa?) di malessere, se non addirittura di frustrazione.
L’ho presa un po’ alla lontana nel tentativo di rispondere a un quesito che mi sento rivolgere abbastanza frequentemente: “Ma tu, cosa ci guadagni a scrivere sul tuo blog?”. In quelle occasioni, potrei cavarmela con un semplice “Non ci guadagno nulla, ma mi piace…” (che è anche vero), ma in realtà quella risposta rischia di essere non del tutto vera.
Se da un lato, dedicare tempo e risorse alla gestione di un blog personale, non fa intravvedere una ricompensa economica immediata e direttamente correlata, dall’altro, è altrettanto innegabile come questo esercizio si possa inquadrare in una logica di miglioramento delle mie conoscenze e, più in generale, anche in termini di crescita professionale.
Questo scollegamento immediato fra il fare (causa) e la ricompensa (effetto) mi dà l’opportunità, fra le altre cose, di allineare le azioni con i miei valori. Una stessa linea di mira che mi consente di vedere anche inedite opportunità nella mia occupazione lavorativa.
So di non sapere
Il paradosso socratico, come è noto, fa perno sull’ignoranza. Ovvero, sulla consapevolezza della non conoscenza che, a sua volta, si trasforma in un potente stimolo per conoscere.
Ciascuno di noi, in relazione ai propri percorsi di studio e professionali, acquisisce via via delle nozioni che finiscono per apparirci ovvie. Ci accorgiamo di questa distorsione quando dobbiamo spiegare a nostra nonna cosa fa uno che si occupa di SEO. Ecco allora che scrivere delle cose in un blog, in maniera più o meno sensata, ci costringe a fare i conti con tutto quello che non è affatto scontato e che, a volte, non lo è nemmeno per chi scrive.
Partendo dal presupposto che non esistono cose facili e cose difficili, ma solo cose che conosciamo e cose che (ancora) non conosciamo, la scrittura che non ha un immediato ritorno economico ci mette nella condizione ideale per evitare la disconnessione fra ciò che narriamo e ciò che in realtà potrebbe essere (non) compreso dai nostri lettori.
Sappiamo che scrivere e parlare sono due modalità di espressione molto differenti. Siccome mettere “nero su bianco” dei concetti prefigura un tempo di riflessione superiore rispetto alla loro esposizione attraverso il più veloce canale verbale, ci dà l’opportunità di immaginare cosa significa dimenticare ciò che sappiamo.
Si tratta, in un certo senso, di un lavoro di arricchimento contro-intuitivo. Come ci esprimevamo prima di sapere tutto quello che sappiamo adesso? È solo partendo dai concetti base che possiamo individuare la forza o la debolezza dei collegamenti che tengono insieme le nostre conoscenze. Tutte cose che, dandole per scontate, non vediamo più.
Cosa ho o cosa sono capace di fare?
Una delle cose che apprezzo di più di LinkedIn è la modalità gamificata di stesura della biografia. Complici anche le dinamiche della piattaforma, ben presto si comprende come le relazioni interpersonali siano in minima parte determinate dai titoli (sebbene importanti), ma vengano soprattutto innescate da ciò che si fa e si è in grado di fare.
Come dire, la mappa non è il territorio. In una persona c’è sempre di più di quello che sta sulla sua superficie visibile (i titoli per l’appunto).
Questo approccio mi ha permesso di non cadere nella trappola della sopravvalutazione delle apparenze (le mie comprese), per evitare scorciatoie di comodo che mi avrebbero impedito di continuare a scrivere in maniera del tutto disinteressata alla ricompensa istantanea.
Il valore, una teoria silenziosa
In un mondo che urla è anacronistico pensare solo a “come farsi sentire”, quando invece appare molto più utile preoccuparsi del valore che possiamo aggiungere.
Aumentare il volume della nostra voce o aspettare che gli altri abbassino il loro, è un’impresa sicuramente plausibile, ma dai risultati incerti e comunque altamente dispendiosi.
Allora, la causa e l’effetto siamo noi nel momento in cui decidiamo di accettare le sfide, di superare le paure, di guardare in faccia ai nostri valori e combattere cognitivamente per la loro piena realizzazione. Diventare persone migliori, è questa la ricchezza che ricavo da ciò che faccio. E alla fine anche l’economia se ne accorge.
Foto di Faye Cornish

