Viviamo in un mondo che ci spinge ad andare più veloci della nostra stessa velocità. Il massimo tempo di riflessione pare essere diventato quello dell’istantaneità, nonostante gli evidenti limiti dei nostri apparati biologici e cognitivi.
E, comunque, sappiamo benissimo quanto sia rischioso guidare a folle velocità, eseguire un lavoro frettolosamente, affidarci sistematicamente alle euristiche in un contesto distorto della realtà.
Per questa ragione, l’antico adagio (è il caso di dirlo) “chi va piano, va sano e va lontano” è di certo da perseguire nella grande maggioranza degli ambiti dell’esperienza umana. In sostanza, la saggezza comune è così fortemente interiorizzata dentro di noi da plasmare intrinsecamente le cose che abitualmente facciamo.
Ad ogni buon conto, per non etichettare la velocità alla stregua di un anti-modello, ci sono campi operativi dove la riduzione del danno è la risultante della rapidità di decisione e di esecuzione.
La conquista del Polo Sud
Scavando nelle nostre più recondite nozioni scolastiche, è facile vedere affiorare l’avventurosa impresa dell’esploratore norvegese Roald Amundsen alla conquista del Polo Sud. È probabile, tuttavia, che in quella stessa memoria non ci siano molte tracce dell’altra spedizione, quella capitanata dal britannico Robert Falcon Scott.
Amundsen arrivò in Antartide 35 giorni prima di Scott, grazie soprattutto alla maggiore velocità garantita dallo snello equipaggiamento della sua squadra. In un ambiente ostile, quale è quello del Polo Sud, la rapidità di spostamento è stata decisiva rispetto a una rigida pianificazione e a un’ingombrante attrezzatura.
In Antartide, quando le scorte si esauriscono, le speranze di sopravvivere si riducono drasticamente e in tale contesto la lentezza non può che far aumentare il rischio, come di fatto si è poi verificato.
Le nostre “imprese” giornaliere sono generalmente meno rischiose di un viaggio fra ghiacci inesplorati, ma non di meno ci sbattono costantemente in faccia la sfida contro il fattore tempo. Lo sanno bene le startup, la cui più grande risorsa è la rapidità che consente loro di giocarsela con la grande industria, oggettivamente più lenta ad affrontare scenari in costante e mutevole evoluzione.
Su questo piano inclinato si scontrano, da un lato, un prodotto “quasi perfetto”, ma già disponibile, e dall’altro, un prodotto “perfetto”, ma non ancora pronto per essere immesso sul mercato.
Allora, nell’istantaneità che ci avvolge, pare proprio che la lentezza faccia pagare un prezzo più alto rispetto al rischio dell’imperfezione.
Pillola rossa o pillola blu?
Nelle professioni, ma anche nelle interazioni extra-lavorative, le decisioni sono senz’altro un aspetto onnipresente della nostra vita. Da come risolvere un imprevisto alla lista della spesa, è un continuo susseguirsi di “scelte di campo” che, a loro volta, saranno foriere di altri crocevia consequenziali e solo temporaneamente risolutivi.
Sulla nostra pelle impariamo che un’ottima decisione, però presa con estrema lentezza, può avere un risvolto negativo almeno quanto una cattiva decisione. Senza peraltro prendere in considerazione la non-decisione che, fra tutte le opzioni possibili, oltre a essere essa stessa una decisione, spesso dà luogo a danni maggiori.
È pur vero, per dirla con l’acume di Henry Ford, “che tu creda di farcela o di non farcela, avrai comunque ragione”, ma al di là della pacificazione con la nostra coscienza, resta il fatto che una decisione va comunque presa prima che sia troppo tardi. E da quel momento nulla sarà come prima.
La velocità ci porterà frequentemente a prendere decisioni sbagliate, ma l’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’inazione che ci spalancherà lo scenario peggiore possibile.
Per quanto maldestramente, tirare molti palloni in porta ci consentirà di fare goal (prima o poi), al contrario di limitarci a fissare il portiere per tutta la partita, senza mai prendere la decisione di sferrare un calcio.
Foto di Vladislav Babienko