Che si tratti di un elevator pitch in senso lato o di una classica conferenza, il vincolo del tempo è sempre in cima alle indicazioni cui attenersi. Di solito, fa il paio con il “numero massimo di slide da presentare”, ma questa, più che una prescrizione, è una deformazione mentale di chi è convinto che PowerPoint funzioni come un orologio.
Ad ogni modo, tutte le volte che ci danno “dieci minuti” per poter svolgere il nostro speech rimaniamo per un attimo sospesi fra la tentazione di un “grazie, allora niente” e una gran voglia di “adesso vi faccio vedere io”. Ovviamente, da guerrieri quali siamo, lancia in resta e pancia a terra, accettiamo la sfida contro il cronometro.
Se non riesci a dirlo in 15 secondi, allora significa che non lo sai
A pensarci bene, sono sempre i primi secondi a incuriosire la platea. È in quella piccola manciata di tempo che il relatore lancia il suo gancio per catturare l’attenzione e far sì che la curiosità delle persone che lo ascoltano gli vada appresso.
Conosciamo tutti degli autentici cultori della propria materia (professori, manager, allenatori) che, messi davanti a un pubblico, non riescono a trasmettere un messaggio minimamente convincente. Come dire, le cose le sanno eccome, ma non riescono a comunicarle.
Einstein era uno che senza dubbio ne sapeva, ma aveva anche la capacità (forse ancora più importante della conoscenza) di farsi capire: “Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività”. Meno di 15 secondi per spiegare a tutti un concetto indubbiamente per pochi.
Con ogni probabilità noi, poveri mortali, ci troveremo a raccontare argomenti più semplici, ma non di meno dovremo cercare di ottenere gli stessi risultati del grande fisico tedesco: incuriosire, farci capire, lasciare una traccia memorabile.
Tutto dipende da come racconti il mondo
Quando facciamo una presentazione, una conferenza o una (semplice) riunione, alla base di tutto c’è sempre il tentativo di risolvere un problema. Allora, perché non esporre subito un “dolore” che il pubblico conosce alla perfezione, ma di cui, allo stesso tempo, ignora la possibile cura?
“Vi è mai capitato di perdere più tempo a cercare un parcheggio libero che a fare tutto il viaggio?”. Così iniziamo subito a sintonizzare tutte le antenne sulla stessa frequenza e a far rivivere alle persone del pubblico una “sofferenza” assai nota.
Ora, si tratta solo di far immaginare la situazione ideale: “Quanto sarebbe bello poter parcheggiare immediatamente senza estenuanti attese?”.
Infine, la transizione risolutiva: “Smettete di sognare, la soluzione si chiama EasyPark! Un’applicazione che scansiona continuamente i posti liberi e vi guida verso quello più vicino”.
Tre, due, uno… goal! In pochi secondi si arriva subito al punto senza inutili divagazioni. Poi, se rimane tempo, si potranno approfondire alcuni aspetti, ma ormai la scena l’abbiamo conquistata.
La mucca che bruca nella stanza delle conferenze
La principale preoccupazione di chi assiste a una presentazione è concentrata nella frase “Ma quanto durerà?”. Siccome nessuno si è mai lamentato di un discorso troppo breve (ma interessante), l’ingombrante mucca (l’ansia) va immediatamente allontanata.
Un buon modo per invitare il metaforico bovino all’uscita è far comprendere di essere consapevoli del disagio e dire di quanto tempo avremo bisogno per esporre le nostre argomentazioni. Il pubblico tirerà un respiro di sollievo, si rilasserà e, dal momento che abbiamo intercettato il suo stato d’animo, ci concederà anche il suo credito. E non abbiamo ancora iniziato!
La comunicazione che funziona è fatta di cose semplici
Le prime parole, ormai lo sappiamo, fanno la differenza. Un verbo che dà energia all’azione, alcune istruzioni e niente più.
Tutte le volte che iniziamo un discorso, teniamo ben presente la potenza di uno slogan come “Bevete Coca-Cola”. Verbo e azione. Serve altro?
Se vogliamo che il pubblico ricordi quello che diciamo, è necessaria anche un po’ di musica. Le parole sono suoni e come tali si comportano. I motivetti orecchiabili non sono altro che combinazioni ritmiche armoniose e indimenticabili. Da “I Like Ike” a “Yes We Can” va in scena sempre lo stesso spartito, ma tutte lo volte stimola la fantasia, la ripetizione, il ricordo.
Se l’allitterazione e la rima rappresentano, in un certo senso, l’accordo che già risuona nella testa di chi ci sta ascoltando, la pausa, più o meno lunga, è la premessa all’inatteso scossone emotivo che sferreremo da lì a poco. Tutto in 15 secondi.