Dopo aver fatto di necessità virtù al tempo del lockdown, il lavoro da remoto sta presentando il conto. A fronte di una sostanziale approvazione dei lavoratori, c’è ancora una notevole resistenza da parte di una certa dirigenza aziendale (pubblica a e privata) che interpreta questa trasformazione come una perdita di controllo.
Al centro del dibattito si pone senz’altro la questione di come valutare la prestazione lavorativa. Un cortocircuito dal quale è impossibile uscire se i manager rimangano impigliati dentro la loro concezione (imperfetta) del tempo offline.
Quando la misura della produttività si riduce al contatto visivo dell’impiegato seduto alla scrivania del suo ufficio aziendale (che, peraltro, può essere intento a consultare i suoi social), è praticamente impossibile ripensare in chiave smart una trasformazione che, a mio modesto parere, è destinata a rimanere e a rafforzarsi.
Perché è necessaria una nuova mentalità
Quando il lavoro da remoto era “semplicemente” una tendenza, sulla strada più breve per bypassarlo si accampavano difficoltà in un certo senso anche legittime: la necessità della presenza fisica in un determinato spazio, la difficoltà a gestire squadre intersettoriali fuori da un contesto analogico, l’esigenza della contemporaneità oraria.
Il cambio di passo, imposto dall’accelerazione di questi mesi, ha messo in evidenza come lo smartworking non si possa intendere alla stregua del “lavorare in ufficio” con la sola differenza che manca il viaggio per raggiungerlo. E nemmeno, mi si passi l’aspetto folkloristico, stare al computer in pigiama.
Credo nasca da queste aberrazioni il tentativo di alcune aziende di imitare l’operatività dell’ufficio fisico attraverso l’imposizione di precisi orari di compresenza. Obbligare tutti online nelle stesse ore, fa naufragare il concetto stesso del lavorare in modalità remota perché, ancora una volta, si finisce per privilegiare il controllo a discapito della creatività individuale.
Così come non possiamo pretendere di guidare un’automobile alla stessa maniera di una bicicletta, il lavoro da remoto richiede un approccio molto diverso dal suo omologo analogico, in larga parte ancora figlio della rivoluzione industriale del XIX secolo.
Si pensi solo all’opportunità di poter assumere collaboratori di talento, diversamente ostacolati dall’inevitabile pendolarismo. In questo caso, parte dei benefit (auto aziendale, buoni pasto, rimborsi spesa) potrebbero venere trasformati in incentivi, a tutto vantaggio della fidelizzazione e della produttività.
Cambiare l’unità di misura
Pensare di valutare il lavoro a distanza su base oraria è del tutto anacronistico, a meno di immaginare una specie di Panopticon digitale davvero fuori dal tempo. Pertanto, l’unità di misura non può che essere l’obiettivo da raggiungere.
Cioè, occorre passare dal “vedo che lavori, quindi credo che lavori” al “mi fido delle tue capacità, perché vedo i risultati”.
Liberatosi dalla “dittatura del cartellino”, il tele-lavoratore può finalmente esprimere le sue capacità negli orari a lui più congeniali. Ho conosciuto intere schiere di studenti dai risultati brillantissimi che dormivano tutto il giorno, trovando di notte il momento del loro massimo rendimento.
Per altro verso, in molte professioni la retribuzione su base oraria (le famose giornate/uomo) appare anche offline un nonsense al limite del surreale. Penso, per esempio, a un sistemista informatico, a un art director, a un content editor, dove la prestazione può essere realizzata in due minuti. E vent’anni di esperienza.
Accedere alle informazioni
Gli immancabili Post-It, che addobbano la maggior parte dei monitor sulle scrivanie degli uffici, vanno sostituti con punti centralizzati e condivisi delle informazioni. Quello che era “naturale” nello spazio fisico aziendale (appunti volanti, richiesta di delucidazioni verbali, scambio di pareri) trova la sua espressione logica dentro una piattaforma (es. un wiki aziendale, una to do list, un calendario condiviso) in cui è possibile trovare appunti, note, messaggi.
Ovviamente, tutto ciò non si materializzerà all’improvviso. Occorrerà far crescere una cultura del lavoro remoto a tutti i livelli. Magari, cominciando proprio dalla cultura in senso lato.
Non perdere di vista il senso di comunità
Si sa, gli uffici sono anche luoghi in cui si instaurano relazioni che vanno ben oltre gli aspetti professionali. In questo senso, il lavoro a distanza rischia di sbiadire quel sano cameratismo che si nutre di incontri faccia-a-faccia, di “pacche” sulle spalle, di pause caffè.
Siccome il lavoro è pur sempre energia che si ricava dalle relazioni, all’interno di un piano di riorganizzazione dei tempi e dei modi produttivi, diventa essenziale garantire anche il “contatto” in un luogo (ufficio?) fisico.
Una volta alla settimana? Due volte al mese? Quando si sente la necessità? Evidentemente, non può esistere una regola. La cosa importante è che questa modalità venga incoraggiata in quanto momento aziendale fondamentale per il successo stesso del lavoro da remoto.
I computer sono sempre connessi, le persone devono avere il diritto di disconnettersi
Un anacronistico luogo comune vuole che per il “lavoro da casa” non esista una netta demarcazione con il “tempo a casa”. Il fatto di tele-lavorare dalla propria abitazione non significa automaticamente “reperibilità 24/7”, da cui la pretesa di convocare videocall a tutte le ore del giorno e della notte, festivi compresi.
Fa bene l’azienda a chiedere flessibilità, ma solo a patto che sia bidirezionale. E tuttavia, fatte salve le (comprovate) urgenze, la pronta disponibilità dello strumento (in questo caso, il computer) non è un valido motivo per “dimenticarsi” dei tempi di vita delle persone.