Prima guardiamo l’orologio, poi facciamo un giretto sui social e, infine, ci assopiamo cercando di dare il meno possibile nell’occhio. Credo che questa sequenza suoni molto famigliare a tutti coloro che almeno una volta hanno assistito a una presentazione noiosa (oltre il 90% dei casi).
Come se non bastasse, dopo un’ora non ci ricordiamo nemmeno più il nome del relatore e, forse, nemmeno di essere stati lì. Evidentemente, non è la nostra memoria a fare cilecca, ma il piattume dell’eloquio che non è riuscito a catturare nemmeno un briciolo della nostra attenzione.
Diciamo le cose come stanno, la “pennichella di gruppo” è una delle micidiali costanti di gran parte delle conferenze. In un certo senso, assistiamo a una sorta di rassegnazione collettiva che ci porta a dare per scontato il modello ricorrente fatto di cantilene da recita di Natale dell’asilo, di slide confezionate con il badile, di nulla pneumatico.
Ma c’è di più. Siamo così poco consapevoli della sofferenza che ci viene inflitta durante queste riunioni, conferenze e presentazioni, che quando tocca a noi stare dall’altra parte ci trasformiamo in quegli stessi aguzzini.
Gli errori che fanno addormentare
Ognuno ha il suo stile e per questo non ci può essere una regola universale su come fare un discorso in pubblico brillante e entusiasmante per la platea. Tuttavia, possiamo vestire i panni dell’investigatore e analizzare gli errori che più frequentemente portano al disastro.
Il relatore non è preparato
Nessuno sa tutto, nemmeno della propria materia, ma c’è una grossa differenza fra un difetto di conoscenza e l’improvvisazione.
Da cosa si capisce? Dall’ampio e sconsiderato uso dei cosiddetti filler, ovvero le parole riempitive che vengono utilizzate quando si è incerti su cosa dire o, addirittura, non si sa proprio cosa dire. Di conseguenza, si ha bisogno di prendere tempo per raccogliere le idee (se ci sono).
Siccome il silenzio (la pausa strategica) fa paura solo a chi è in imbarazzo a causa della sua impreparazione, l’ancora di salvezza (si fa per dire!) viene individuata in un torrente di “allora“, “dunque”, “cioè” (immancabile), “in pratica”, “insomma” e dall’evergreen “diciamo che…”. Sia chiaro, si tratta di parole che hanno tutte un loro significato preciso, ma lo perdono quando vengono utilizzate per riempire i vuoti del discorso.
La mancanza di preparazione del relatore diventa conclamata quando ai filler si aggiungono anche le parole spazzatura (ehm, mmh, beh). Tombola!
Di contro, l’oratore ci appare preparato, deciso e sicuro, quando usa il silenzio per rafforzare il significato di alcuni passaggi del suo discorso.
Come già detto, non esiste l’allenamento perfetto per parlare in pubblico senza farsi prendere dal panico, ma io trovo molto efficace memorizzare i punti principali del discorso che andrò a fare e ripeterli diverse volte mentre faccio altro (ascolto la radio, cucino, curo le mie piante). Così facendo sottopongo la mia presentazione a uno stress non dissimile a quello che troverò quando sarò davanti al pubblico (interruzioni, domande a bruciapelo, imprevisti), con il risultato di mitigare il rischio di “perdere il filo”.
Il relatore non ha una trama
Le buone idee senza un “contenitore” diventano banali. I film, i libri, le favole che ricordiamo per sempre hanno tutti i pezzi perfettamente interconnessi fra loro. Per farla breve, hanno una narrazione coerente che ci tiene incollati fino alla fine.
Quando in una presentazione manca la storia, ovvero la transizione dal problema alla soluzione, si perde la sfida che il relatore lancia al pubblico. L’unico risultato possibile è che quest’ultimo lo saluta più o meno platealmente con il suo disimpegno.
Un secolo e mezzo fa, Gustav Freytag aveva già individuato le parti più significative e ricorrenti nelle tecniche narrative efficaci:
- il contesto (l’impostazione della scena);
- il conflitto (la creazione della tensione);
- il climax (il culmine dell’emozione);
- la chiusura (il collegamento di tutti i puntini rimasti sospesi);
- la conclusione (la soluzione e la fine della storia).
Tenere presente questo schema, noto anche come Triangolo di Freytag, aiuta il relatore a imbastire una presentazione degna di questo nome.
Il relatore non ha un “perché”
Se il pubblico non comprende lo scopo del discorso, anche la trama più fantasiosa rischia di essere insufficiente.
È necessario allora chiarire subito perché le persone dovrebbero dedicare la loro attenzione all’ascolto della nostra relazione. Perché risolve un problema inedito? Perché vuole dimostrare il senso di un’affermazione audace? Perché ha l’obiettivo di smontare un diffuso luogo comune?
Il tempo è prezioso e nessuno vuole sprecarlo. Tanto meno il pubblico che ha deciso di regalarcelo, ma solo in cambio di qualcosa di nuovo da imparare. Se mettiamo le persone nella condizione di capire perché devono “entrare nella nostra storia”, vorranno scoprire la soluzione e ci seguiranno con entusiasmo fino al nostro “Grazie per l’attenzione”.
Foto di George Milton