Quando in calce a un articolo leggo una lunga teoria di commenti che lo avversano, mi viene in mente questa citazione attribuita allo scrittore britannico Kingsley Amis.
Mettendo da parte gli attacchi sul piano personale (quando non si discutono più le idee altrui, il contraddittorio si riduce unicamente a una chiacchiera con se stessi), le considerazioni a vanvera e i “sentito dire”, il confronto è sempre il miglior modo per trovare la giusta misura delle proprie capacità di scrittura.
In un certo senso, pubblicare le proprie opinioni è un po’ come scoperchiare il vaso di Pandora. È inevitabile venire attaccati o contestati, ma come nel mito solo la speranza (in questo caso, il nostro tasso di assertività) ci può salvare.
Se, come credo, la scrittura sia in primo luogo un modo per “leggersi dentro” più che uno strumento per farsi leggere, allora diventa inevitabile che coincida con il calco della nostra interiorità più autentica.
C’è modo e modo di scrivere
Quante volte la violenza del dibattito è stata innescata non tanto da ciò che è stato detto, ma da come è stato detto?
Così come l’intonazione della nostra voce fa assumere alle parole significati molto diversi, si pensi ad esempio a una frase come “Sapete cosa è successo?” che da come viene pronunciata può far immaginare una cosa bella o brutta, alla stessa maniera il tono della scrittura determina in larga parte il suo significato.
In primo luogo, le parole che vengono scelte si portano dietro un intero universo di sfumature e, di conseguenza, è pressoché impossibile ritenere due termini del tutto sinonimi. Le parole “regalo” e “omaggio” innescano coinvolgimenti emotivi non sovrapponibili. E ancora, dopo avere attraversato la pandemia, alla parola “positivo” attribuiamo di default lo stesso significato di due anni fa?
Tutta un’altra storia
Dentro qualsiasi testo c’è sempre una storia. Anche l’ormai proverbiale “Buongiornissimo Kaffè!!11!” rivela una narrazione che pone le basi per una sua ulteriore amplificazione (“A chi, in particolare, avrà voluto augurare un buon inizio di giornata?”).
Ecco perché lo stesso fatto lo si può raccontare in una miriade di modi diversi, per l’esattezza 99, come riesce a fare Raymond Queneau nel suo magnifico Esercizi di stile. E sì, in relazione al tono adottato la faccenda può assumere contorni drammatici, divertenti o, addirittura, epici. Tutto questo, semplicemente sostituendo le parole con i loro “sinonimi”, cambiando punto d’osservazione, fino ad arrivare a frantumare le regole lessicali.
E poi, le distanze, le esclusioni, i valori
A volte, si è portati a scrivere con un registro estremamente specialistico. Senza pensare immediatamente a “quanto se la tira questo”, le ragioni possono non essere necessariamente divisive, ma rappresentare solo la ricerca di un perimetro entro il quale identificare dei lettori che risuonino sulla stessa lunghezza d’onda dei pensieri dello scrittore.
Lo sappiamo. Ci sono delle parole che scaldano il cuore, mentre altre lo aprono oppure lo chiudono. Normalmente, siamo portati a enfatizzare termini come “amore”, “onore”, “libertà” e con la stessa consapevolezza scegliamo se usare le parole come baci o come proiettili.
Il finocchio è sempre un ortaggio? La cagna è sempre la femmina del cane? Perché usiamo l’appellativo di “signora” quando in uno specifico contesto l’interessata ha un titolo accademico? Scrivere nero, negro, afroamericano o extracomunitario si producono gli stessi effetti?
Allora, siccome la scrittura ci porta dritti dritti su piani inclinati fuori dal nostro controllo, l’unica cosa che possiamo fare è scegliere consapevolmente le parole, comprese quelle da non inserire.
“Le parole sono la nostra massima e inesauribile fonte di magia, in grado sia di infliggere dolore che di alleviarlo.” (Albus Silente, preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts – Harry Potter).
Foto di Freddy Kearney

