Adoriamo le frasi fatte. Vuoi per “andare sul sicuro” (se lo dicono tutti, vorrà pur dire che va bene così!), vuoi perché l’elaborazione di significati più articolati richiede sempre un certo dispendio di energia (e, si sa, il cervello tende a utilizzare il Sistema 1 per impostazione predefinita), facciamo coriandoli della nostra consapevolezza sociale e, pilota automatico inserito, attingiamo da un catalogo di modi di dire ampiamente noto e condiviso.
Come succede per tutte le cose che facciamo meccanicamente, anche quando usiamo certe espressioni verbali perdiamo di vista la reale dimensione della loro portata e, ancor peggio, l’effetto che producono sui nostri interlocutori. E pensare che abbiamo ben chiare le conseguenze “disastrose” che quelle stesse frasi hanno su di noi.
Ci sono passato anch’io, so quello che stai provando
Quante volte abbiamo usato questa struttura lessicale con la convinzione di alleviare il dolore di un amico che ha appena subito un lutto?
Ovviamente, è una frase che pronunciamo con tutte le migliori intenzioni del mondo, ma siamo veramente sicuri di confortare in questo modo il nostro amico?
Fresco di questa esperienza, posso dire che i momenti difficili non diventano magicamente più sopportabili se qualcuno ci informa che quel dramma gli è occorso anche a lui. Presto o tardi, tutti finiamo per perdere i nostri cari, non è una novità, e non è certo motivo di incoraggiamento sapere che è capitato anche ad altri.
Ci teniamo a far sapere al nostro amico che non è solo? Ascoltiamolo. Prendiamoci del tempo, anche dopo, per far sentire la nostra presenza. Non serve altro.
E pensare che te l’avevo detto
Anche in questo caso, mettiamoci dall’altra parte. Ci fa piacere quando qualcuno ci ricorda che potevamo evitare di sbagliare perché lui, il “veggente”, ci aveva avvertito con grande anticipo?
Ormai, l’errore l’abbiamo fatto e non sarà certo un “te l’avevo detto” a possedere il potere di riavvolgere il nastro degli eventi.
Invece di pronunciare questa frase “irritante”, la cosa migliore che possiamo fare è dispiacerci per il guaio che è successo e analizzare, insieme al fautore, perché le cose sono andate così.
L’esperienza nasce dal prendere coscienza dei propri errori, non da qualcuno che rimarca la sua supponente superiorità. Prima o poi, tutti sbagliano. Anche i premi Nobel.
Il problema è un altro
Dopo aver argomentato le nostre tesi, quanto è fastidioso sentirci dire che “il problema è un altro”?
Magari, lo diciamo anche noi (meccanicamente?), ma fino a quando non ci viene sbattuto in faccia non ci accorgiamo del risentimento che provoca.
Si esce da questo cortocircuito solo realizzando che ognuno di noi ha una propria rappresentazione della realtà (Schopenhauer docet) e che per la stessa questione possono coesistere numerosi punti di vista.
Pertanto, se davvero ci teniamo al confronto con il nostro interlocutore, diamo uguale dignità a tutte le tesi e, attraverso l’ascolto attivo, cerchiamo nelle argomentazioni avverse sempre nuovi spunti di ragionamento.
Del resto, possiamo migliorare la nostra conoscenza delle cose e del mondo solo quando veniamo in contatto con opinioni differenti dalle nostre. La scappatoia del “problema è un altro” finisce per rinchiuderci in una camera d’eco che di fatto irrigidisce la nostra elasticità mentale.
Questo lo pensi (o dici) tu
A ruota, segue l’impertinente “è solo nella tua testa”. Quasi a sostenere che il disagio vissuto da una persona sia solo frutto della sua immaginazione o, peggio, un’invenzione per farsi commiserare.
Generalmente, gli individui hanno quasi sempre un buon motivo per essere infelici, arrabbiati, delusi. L’approccio in modalità “lo pensi tu” non fa altro che operare una demolizione traumatica del sistema cognitivo della persona in questione.
Per lo stesso motivo per cui siamo bravissimi a dare consigli agli altri, ma diventiamo delle schiappe assolute quando i medesimi problemi li dobbiamo affrontare noi in prima persona, non possiamo arrogarci il potere di sapere da fuori cosa succede dentro la testa di un’altra persona.
La soluzione? Empatia, empatia, empatia. Lo scopo è cercare di capire qual è il motivo per cui le persone si sentono in quello stato, indipendentemente dal fatto se per il nostro (che per l’appunto è “il nostro”) metro di giudizio quella condizione abbia senso oppure no.
Buona fortuna
Questa frase è a tutti gli effetti un capolavoro di sarcasmo. In pratica, esprime l’esatto contrario di ciò che sintatticamente vorrebbe significare.
Facciamoci caso. Se qualcuno vuole veramente augurarci tutto il bene possibile per la nostra idea o per la nostra impresa, ci dice qualcosa tipo “È proprio una bella sfida, sicuramente alla tua portata”, “Sarà un successo, hai coraggio da vendere”, “Solo tu, con le tue capacità, potrai riuscirci”.
Al contrario, “buona fortuna” è l’interruttore della sfiducia, quello che fa diventare un (presunto) incoraggiamento in un’autentica maledizione.
Pensateci. Gran parte delle volte nelle quali avete pronunciato “buona fortuna”, in cuor vostro desideravate il fallimento, intriso d’invidia, del relativo progetto.