Si dice che siamo quello che facciamo, ma a volte il nostro prodotto è l’unica cosa che appare (quando va bene). Succede sempre più spesso che compriamo merci o oggetti con una storia dentro, vale a dire che gli riconosciamo un valore completamente scollegato da quello che ha il prodotto in sé.
Questo valore, che poi è quello che davvero entra in competizione con la concorrenza, è in larga parte riconducibile alla credibilità della persona artefice del prodotto o del servizio in questione. Nasce così la necessità di concentrarsi sulla creazione di un marchio personale, separato da quello del prodotto. Sto parlando del personal branding.
È questa la chiave per acquisire credibilità e consolidare nell’opinione pubblica l’idea che siamo noi la migliore garanzia delle cose che realizziamo. La stima che ne deriva, oltre a rafforzare i risultati professionali (detta brutalmente, il fatturato), ci identifica come un’autorità riconosciuta in un determinato ambito e, per converso, meritevole di considerazione anche in contesti più ampi.
Come si fa a mettere in piedi tutto questo meccanismo? Si usa dire che Roma non l’hanno fatta in un giorno e, allo stesso modo, anche quando ci si mette all’opera sulla reputazione personale i tempi non sono mai istantanei. Tuttavia, ci sono alcune pratiche che, se ben orchestrate, possono già risultare efficaci nel volgere di qualche mese.
Sappiamo chi siamo?
La prima cosa da fare, che è anche quella più difficile, è stabilire che immagine di noi vogliamo dare al mondo. Cioè, come ci piacerebbe che ci vedessero gli altri? Può apparire una banalità, ma proviamo a pensarci per qualche secondo e vedremo che anche a noi stessi la nostra identità non ci apparirà così scontata.
Siamo veri o di plastica?
Partiamo da questo presupposto: le persone vogliono allacciare relazioni vere con persone vere. Costruire un personaggio lontano anni luce dal nostro essere nella realtà, alla lunga (nemmeno tanto) finisce per infrangersi contro il muro della evidente mancanza di autenticità.
Ognuno di noi ha pregi e difetti. Cercare di farci percepire come degli highlander della perfezione assoluta sa di finto, e allora addio relazioni. Perché, lo ripeto, il marchio personale si regge essenzialmente sulle relazioni.
[bctt tweet=”La notorietà con poco merito sacrifica tutta la stima.” username=”giowile”]
Le relazioni analogiche
Lo sappiamo tutti, parlare in pubblico è una faticaccia nera. Per affrontare questa “avventura” con relativa scioltezza servono preparazione, allenamento e una buona dose di determinazione. Una cosa è certa, questo (gravoso) impegno alla fine viene ripagato con gli interessi.
Appena scopriamo tale ambito come fondamentale per la crescita del brand personale, restiamo senza dubbio sorpresi da quante occasioni (seminari, dibattiti, conferenze) ci si prospettano per portare la nostra esperienza davanti alle più variegate platee. Più gente, più relazioni.
Le relazioni digitali
Nell’era liquida dell’always connected c’è una grossa fetta di credibilità che fa perno sulle cosiddette relazioni digitali. Al faccia-a-faccia analogico fa da contraltare la presenza in rete che si nutre di conversazioni (post, articoli, commenti) incentrate sull’evidenza delle nostre competenze.
Fra il “chi si loda, s’imbroda” e l’assoluto silenzio c’è di mezzo un infinito spazio per dimostrare tutta la nostra specificità.
Contiamo fino a 10, 100 e, se occorre, 1.000
Come tutte le faccende che richiedono un alto tasso di impegno, anche il personal branding più consolidato è di fatto un sistema fragile. È sufficiente una mossa sbagliata per compromettere pesantemente tutto il lavoro di costruzione fin lì svolto.
Riflettere su ogni azione, senza che questo si tramuti in una sorta di ossessione, è comunque un buon esercizio per conferire sempre più spessore al nostro marchio.
Non dimentichiamoci mai che se ci segue solo una persona su dieci, quando capita che commettiamo una leggerezza si palesano all’improvviso anche le altre nove.