È sempre su internet? Dipende!

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Un’occhiata alla bacheca di Facebook, una sbirciata alle notifiche di Twitter, una controllatina alla mail. E finito il giro, si ricomincia. Si può essere ovunque e con chiunque, la routine della dipendenza tecnologica non conosce soluzione di continuità.

Non è un caso che si moltiplichino conferenze e tavole rotonde su queste nuove forme compulsive. Tuttavia, da ogni parte si affronti la questione, i temi prevalenti sono due: come si fa a riconoscere questo tipo di dipendenza (tutti siamo in grado di smettere quando vogliamo, non è vero?) e, una volta accertata, come si cura la patologia?

Negli ultimi dieci anni la tecnologia ha permeato a tal punto le nostre vite che spesso viene anteposta alla famiglia, alle amicizie, al lavoro. I casi limite non mancano, dai divorzi ai licenziamenti. Per questo, nei dibattiti tende a prevalere l’invocazione di provvedimenti drastici per limitare l’utilizzo della tecnologia, mentre finiscono in secondo piano tutti quegli aspetti del digitale che obiettivamente hanno migliorato (e migliorano) la vita delle persone.

Il fatto è che l’esperienza di (e su) internet è totalizzante. L’accesso facilitato con ogni device, i costi relativamente bassi, l’anonimato, la disinibizione, la diluizione del tempo e dello spazio sono ingredienti molto accattivanti e finora in gran parte assenti nelle compulsioni per così dire tradizionali.

Sarebbe comunque fuorviante attribuire esclusivamente all’estrema facilità dello strumento la causa dei vari problemi comportamentali connessi alla vastissima offerta di “distrazioni” della rete. Sono convinto che, come succede nella stragrande parte dei casi di dipendenza, anche in questo caso si consideri la punta dell’iceberg non una parte, ma il tutto. Quando si sente il “bisogno” di una dipendenza (qualunque essa sia) è perché c’è un vuoto da colmare e poco importa che si tratti di solitudine, noia, depressione o bassa autostima. Certo, una dipendenza così a portata di mano diventa molto “comoda” per surrogare comportamenti sociali e/o psicologici difficili o, addirittura, assenti, ma in ogni caso la vedrei più come una risposta a fragilità già esistenti.

Invece, che la compulsione digitale sia una dipendenza a tutti gli effetti è ormai un dato di fatto. Il piacere della ricompensa, innescato dall’aumento di dopamina, è pressoché simile sia si tratti di una sostanza stupefacente o di un Mi Piace. Ciò comporta, in entrambi i casi, la reiterazione dell’azione alla continua ricerca del “premio”.

Le stesse applicazioni, ritornando agli aspetti connessi all’internet addiction, sono progettate in maniera tale da garantire costantemente il flusso delle informazioni. Notifiche e avvisi di vario genere non fanno altro che mantenere i neurotrasmettitori sempre in uno stato di allerta.

È una cospirazione del marketing o del grande fratello? Ci vogliono schiavizzare alla maniera profetizzata da Fritz Lang in Metropolis? Di certo il mercato offre (e a volte anticipa) ciò che vogliono i consumatori-utenti, ma è anche vero che più a lungo stiamo su un servizio (piattaforme sociali, giochi online, cybersex) e più remunerativa sarà l’inserzione pubblicitaria fatta dall’investitore.

Il meccanismo si basa su quanto di più antico ci possa essere: il tempo. Il tempo è una risorsa scarsa e tutti vogliamo risparmiarla il più possibile. Succede così che in un gioco online “guadagniamo” tempo se clicchiamo su un banner pubblicitario o compriamo soldi finti con soldi veri. Su YouTube, per citarne uno dei servizi più conosciuti, la tecnica è ancora più raffinata. Infatti, per evitare di sorbirci tutto lo stacco pubblicitario pre-video, accettiamo di rimanere incollati sullo spot per almeno cinque secondi, dopodiché possiamo “saltare l’annuncio”. Il brand di turno ha la certezza che noi abbiamo visto uno spezzone della sua pubblicità e in cambio ci fa risparmiare tempo. In questo modo la nostra attenzione si trasforma in una miniera d’oro per il marketing. Ovviamente, per quest’ultimo, la dipendenza da internet più che un problema sociale e talvolta clinico, è esclusivamente un buon investimento.

In sostanza, anche chi avanza l’alibi del lavoro (tutta la folta schiera di professionisti che sbarcano il lunario con internet) è in qualche modo intrappolato in questa melassa di bit altamente avvolgenti. Tutti diciamo, con assoluta fermezza, che possiamo smettere quando vogliamo, salvo poi messaggiare su WhatsApp quando guidiamo, controllare le notifiche mentre siamo a pranzo o a cena con i nostri familiari, fino all’estremizzazione di selfare prima ancora di chiamare i soccorsi.

Posto che il mondo non invertirà la tendenza e non investirà nelle cabine telefoniche a gettone, cosa possiamo fare per ritornare a vivere (o convivere?) secondo ritmi che non siano solo quelli delle notifiche?

La volontà. Raramente si smette di fumare con i cerotti, più verosimilmente è la forte determinazione a ritrovare il benessere psico-fisico che fa riuscire nell’impresa.

L’alleggerimento del flusso. Nel mio caso, ho recuperato un discreto equilibrio con il mondo biologico, semplicemente (si fa per dire) cancellando l’account della posta professionale dallo smartphone e disabilitando le notifiche di Gmail, Facebook e Twitter. Vi assicuro che si sopravvive, anche se ci si occupa di social media a livello professionale. Controllare il telefonino a ogni bip non significa “essere sul pezzo”, molto più ragionevolmente vuol dire non avere il tempo di pensare.

Dare del tu al fallimento. Qualsiasi cambiamento comporta impegno, fatica e, ovviamente, l’eventualità di non riuscire a ottenere subito i risultati sperati. È fondamentale rialzarsi, partendo dalle priorità. Vale più un pezzo di plastica con cui comunichiamo con altri esseri umani o gli esseri umani che, la sera a tavola, guardiamo negli occhi respirando la stessa aria?

La moderazione. Come in tutte le cose la “giusta dose” è la sola chiave per apprezzarle. Con questo approccio la tecnologia può solo migliorare la nostra vita e non controllarla.

La prova del nove? Scegliete un bel posto, magari in montagna, dove non arriva nessun segnale e passateci un weekend.

Di Sergio Gridelli

Sono nato e vivo a Savignano sul Rubicone (FC), una piccola città della Romagna attraversata dal fiume che segnò i destini di Roma. PERCHÉ LO FACCIO Ho sempre pensato che l’impronta di ciascuno di noi dipenda da un miscuglio di personalità e di tecnica. Se questi due ingredienti sono in equilibrio nasce uno stile di comunicazione unico, subito riconoscibile fra tutti gli altri. Perché in un mondo tutto marrone, una Mucca Viola si vede eccome! COME LO FACCIO Aiuto le persone a trovare le motivazioni che le rendono uniche. Non vendo il pane, vendo il lievito. COSA FACCIO Mi occupo di comunicazione aziendale e della elaborazione di contenuti per il web. Curo i profili social di aziende e professionisti. Tengo corsi sulla comunicazione interpersonale, il public speaking, il marketing digitale e su come realizzare presentazioni multimediali efficaci.

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