Nonostante da qualche anno le messaggistiche istantanee la facciano ormai da padrone incontrastate, la “vecchia” mail resta uno dei mezzi più utilizzato per comunicare, specie a livello aziendale. Se non altro per la possibilità di tenere traccia, in maniera più organica, di una discussione, di un progetto, di un work in progress.
Per altro verso, senza una mail non possiamo aprire un account o accedere alla gran parte dei servizi offerti dalla rete.
Così, da mezzo secolo, la mail è entrata a far parte delle nostre vite e ha contribuito, al pari di qualsiasi altra tecnologia, a modificare i nostri comportamenti. Si pensi solo al fatto che il 36% delle persone accede alla propria casella di posta elettronica dalle 2 alle 5 volte al giorno, mentre solo il 6% ci dà un’occhiata almeno una volta alla settimana (fonte: Email Benchmark and Engagement Study, Sendgrid, 2019).
Tuttavia, al di là dell’impegno temporale e cognitivo (comunque rilevanti), negli anni si è fatto strada anche un lessico per così dire “di settore” che ha alimentato la cosiddetta “ansia da mail”. Mi riferisco a tutta la pletora di frasi fatte che va da “Ti è arrivata la mail?” (di solito il mittente clicca Invio nello stesso istante in cui compone il nostro numero di telefono) fino all’ermetico “Ci sono novità?” (senza specificare rispetto a cosa), passando dall’evergreen “Come ti accennavo due mesi fa…” (anche qui, dando per scontato che il ricevente si ricordi dell’oggetto in questione).
Rimediare e ringraziare
Ora, partendo dal presupposto che un sacco di gente si farebbe frustare piuttosto che scrivere, mi pare di aver colto almeno due contesti dove questa difficoltà si amplifica a dismisura: la risoluzione dei conflitti (nelle aziende sono all’ordine del giorno) e la manifestazione di gratitudine (nelle aziende, purtroppo, è più rara del bradipo pigmeo tridattilo).
Al netto degli approcci motivazionali individuali, quando si tratta di lasciare una traccia scritta (una volta si sarebbe detto “mettere nero su bianco”) il rischio di mandare al macero una o più relazioni (professionali e non) è sempre dietro l’angolo.
Ciò succede perché o si scrive troppo, seppellendo sotto una montagna di parole inutili il nocciolo della questione, o perché si scrive troppo poco, lasciando campo aperto alle interpretazioni e agli equivoci.
In ogni caso, si evita quasi sempre di affrontare le cause, perché una volta scritte “marchiano” il loro autore che non può più dire “Non hai capito quello che ho scritto”. Non dimentichiamo che la responsabilità di qualsiasi processo comunicativo è sempre in capo all’emittente. Per cui non esiste dire “Non mi hai capito”, casomai “Sono io che non mi sono fatto capire”.
Allora, la soluzione più rapida è quella di arzigogolare sulla superficie dei luoghi comuni con la convinzione di mettersi in questo modo il cuore in pace (“Io la mail l’ho fatta!”, ma peccato che non sia servita a nulla).
Se lo scopo della mail è quello di riportare a un livello civile una situazione conflittuale, le parole, e soprattutto la struttura letteraria, devono essere scelte con la massima cura.
Tanto per cominciare, la valutazione del contesto è di fatto ciò che vediamo dalla nostra prospettiva. Per questo, inevitabilmente diversa da tutte le altre e, di conseguenza, non è detto che sia “quella vera” (ammesso che ne possa esistere una).
Occorre essere consapevoli che stiamo mettendo sul tavolo, ops nella mail, i nostri stati emotivi. In pratica, va evidenziato come anche noi ci saremmo potuti sentire in quella determinata situazione.
Questo atteggiamento, tutto orientato a trovare una soluzione e non un colpevole, dà all’interlocutore l’opportunità di “salvare la faccia”.
Le parole, se ben utilizzate, hanno il potere di definire un terreno comune. L’alternativa, è scrivere con l’unico scopo di rimarcare le differenze che, non ci vuole molto a capirlo, a lungo andare rendono i conflitti insanabili. E addio obiettivi aziendali.
Sebbene con tutt’altro spirito, anche una mail di ringraziamento presenta non poche insidie. La più pericolosa è l’eccessiva mielosità che rischia di far scivolare tutto nel ridicolo.
Per intenderci, non va bene una cosa tipo “Noi ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi, senza chiederti nemmeno di stare fermo, puoi muoverti quanto ti pare e piace e noi zitti sotto. Scusa per il paragone tra la mosca e il frate, non volevamo minimamente offendere. I tuoi peccatori di prima, con la faccia dove sappiamo, sempre zitti, sotto” (lettera di Benigni e Troisi a Savonarola nel film “Non ci resta che piangere”).
Inutile dire che le mail di ringraziamento più efficaci sono quelle inattese. I leader aziendali non hanno bisogno di attendere le risultanze positive del bilancio per manifestare la loro stima ai collaboratori (spesso non succede nemmeno in questi frangenti), ma ogni episodio è buono per scrivere “Grazie di cuore per quello che sta facendo per noi”.
Non saranno certo le mail a rendere perfette le relazioni professionali, ma anziché erigere dei muri (ancorché di parole), possono concorrere a costruire dei ponti. A conti fatti, sono proprio queste ultime che conserviamo fra le cose più preziose della nostra vita lavorativa.