C’è un luogo comune duro a morire: parlare in pubblico non è solo una questione per “addetti ai lavori” (politici, attori, professori), ma è una faccenda che presto o tardi riguarda tutti.
Mai e poi mai avresti pensato di affrontare una platea, e poi succede che ti ritrovi a dover presentare la tua idea che “cambierà il mondo” in un pitch di 3 minuti. Panico? No, il panico non è un’opzione. Il panico è la costante che accompagna chiunque debba salire su un palco per affrontare un pubblico, dall’esordiente alle prime armi al conferenziere consumato.
In sostanza, le categorie si riducono a due sole: quelli che sono nervosi e quelli che dicono di non esserlo.
Ovviamente, la pratica e l’esperienza fanno la differenza. Soprattutto, per quanto riguarda tutti quegli aspetti “collaterali” che determinano la supremazia della rappresentazione sul contenuto.
Non parli per te, parli al tuo pubblico
Si sa, se una cosa non ci interessa è facile che veniamo catturati dalla distrazione. E quando abbiamo solo una manciata di minuti per convincere il pubblico (gli investitori, nel caso di una startup) è fondamentale entrare subito in contatto con lui.
Connettersi con le persone non è né semplice, né scontato. Qui le storie la fanno da padrone, anche perché il cervello è allenato ad ascoltarle e si immedesima istantaneamente nelle narrazioni che hanno una trama, un colpo di scena, una conclusione inattesa. Far rivivere un problema comune nella testa delle persone (per esempio, chi non ha mai avuto difficoltà a gestire il proprio tempo?) apre poi la strada all’attenzione nei confronti della soluzione proposta (“Voglio proprio sentire come si risolve questa faccenda…”).
Ogni stagione ha il suo pubblico
Uno dei disastri comunicativi più frequenti riguarda la mancanza di informazioni circa le specificità del pubblico. Un conto è raccontare (nei canonici tre minuti) la propria idea alla commissione giudicatrice del contest, un altro paio di maniche è convincere i finanziatori.
In ogni caso, la scelta delle parole appropriate e, ça va sans dire, la passione che brilla nei tuoi occhi, devono essere tali da determinare un contatto forte, autentico, efficace. Se non ci credi tu per primo, come puoi pensare che lo possano fare gli altri?
Nessuno ha mai preso il Nobel per aver usato delle parole difficili
Per far vedere “che ne sappiamo a pacchi” (maddechè!), molto spesso ci facciamo prendere la mano (ops, la lingua) da termini estremamente specialistici, acronimi di nicchia, espressioni gergali tipiche di una particolare area tecnica. Il risultato? Agli occhi degli ascoltatori si appare falsi e poco credibili.
Molto meglio concentrarsi su un’idea e renderla familiare attraverso metafore e concetti comuni. Invece di dare il risultato finale e sostenerlo attraverso complicatissimi ragionamenti, è di gran lunga più efficace che 2 + 2 sia in grado di farlo il pubblico in tutta autonomia. In sostanza, il pitch che convince non è quello che dà il pane bello e pronto da mangiare, ma quello che si limita a fornire il lievito per farselo.
Non solo parole
Che siamo sostenitori di Albert Mehrabian o no, è facile constatare come una presentazione non sia fatta solo di parole. Ci sono una miriade di aspetti che concorrono a determinare il messaggio: l’abbigliamento, possibilmente sobrio per evitare che qualche dettaglio (ostentato per la sua “firma”) possa catturare l’attenzione; la postura, parla in piedi, sempre, anche quando ti invitano a “nasconderti” dietro al famigerato leggio o al tavolo dei conferenzieri; le mani, dimentica di averle, appena inizierai a parlare seguiranno (e disegneranno) istintivamente i tuoi argomenti.
Il silenzio è una potentissima forma di comunicazione. Tutti si ricordano il “Chi tace acconsente”, ma pochi riescono a usare il silenzio in maniera appropriata per separare i concetti fra loro e consentire al pubblico di metabolizzarli. Sembra quasi che il silenzio venga considerato alla stregua di un “vuoto” concettuale e così viene riempito con sequenze di “umm”, “eee”, “ohh” che si traducono in scarsa convinzione e, senza forse, in poco rispetto per la platea. Una buona gestione del silenzio è sempre il preludio alla meraviglia.
Ci sono domande?
Essere pronti a rispondere alle domande rappresenta la cifra oggettiva della tua preparazione. Ma le domande sono importanti anche quando a porle è colui che parla. Un quesito provocatorio ha il potere di accrescere l’attenzione del pubblico e, in più, rivela la sicurezza dell’oratore.
Le domande orientano verso scenari futuri verosimili e consentono di mantenere il controllo della situazione. Ancora una volta, alcuni secondi di silenzio dopo aver posto la domanda permettono al pubblico di riflettere e di conferire maggiore valore alla tua risposta.
Ci vuole orecchio e tanto ritmo
La variazione di tono e di volume hanno lo scopo di enfatizzare un punto o un’idea. Il “come” si dicono le cose è di gran lunga più importante del “cosa” si dice.
Semplicemente, un “Sapete cos’è successo?” detto con un tono gioioso o, all’opposto, con un’espressione mesta, cambia completamente il significato della frase.
Pratica, pratica, pratica!
Lo dicono tutti, più ci esercitiamo in una qualche attività e più ci riesce meglio farla. In un certo senso, è la scoperta dell’acqua calda.
Tuttavia, la cosa davvero rivoluzionaria è una sola. Sali sul palco e sorridi.
Ho sempre saputo che per evitare di fare figuracce su un palco si deve essere molto molto preparati , specie chi non è abituato a parlare ….
Proveremo anche a sorridere !! poi se ci perdiamo continueremo a sorridere indietreggiando indietreggiando e poi fuggendo ;-)))) ma sempre col sorriso !!! ….. come dovrebbe essere presa la vita !
Grazie dei bellissimi consigli !
Fabio
Rileggere questo post dopo un po’ di tempo è sempre molto interessante , direi a mio avviso uno dei più importanti per il public speaking , il suggerimento del silenzio compreso !!!
Grazie Sergio Gridelli !
Fabio Bargnesi