Ormai non dovrebbe più essere una novità per nessuno: le aziende che “fanno squadra” hanno una marcia in più o, come dicono i marketer, sono in grado di dominare il loro mercato di riferimento.
Fatta semplice, sono tutte quelle aziende in cui la leadership ispira continuamente esperienze di miglioramento per i propri collaboratori. Una cultura organizzativa che non si inventa dall’oggi al domani, ma una volta avviata porta il baricentro delle decisioni sulla costruzione della fiducia, sul trasferimento delle conoscenze, sull’affidamento di deleghe sempre più responsabilizzanti.
Tutto inizia con le parole e termina con i fatti. Facile, no? E invece, a ben vedere, la “banalità” delle relazioni interpersonali non pare essere uno strumento molto condiviso.
Per i leader, connettersi con i propri collaboratori, dovrebbe essere la norma o, per meglio dire, il presupposto esistenziale dell’azienda stessa. E pensare che per chi si reputa un leader non dovrebbe poi essere nemmeno molto complicato. Ma esistono i leader?
1) “Mi daresti un consiglio?”
Il mito secondo cui un leader è convinto di non dover mai avere bisogno di nessuno lo trasforma automaticamente in un capo. Il leader che chiede aiuto a un suo collaboratore non dimostra la sua debolezza, anzi trasmette una forte carica di fiducia a chi lavora quotidianamente insieme a lui.
Quando i collaboratori si sentono importanti danno il meglio di se stessi. Il leader che chiede aiuto è uno dei più potenti motori motivazionali che un’azienda possa desiderare di avere.
2) “Posso esserti utile?”
È convinzione diffusa che nelle aziende le traiettorie debbano seguire un’unica direzione: i collaboratori dialogano con i dirigenti solo quando hanno un problema. Invertire questa tendenza crea un ambiente estremamente collaborativo.
La leadership ha un senso e, soprattutto, un valore quando riesce a instaurare un dialogo continuo fra le persone che lavorano insieme. Mettersi a disposizione non significa “abbassarsi”, al contrario è un grande esempio per tutti (leader compreso) per imparare, disimparare, rifare, imparare ancora meglio.
3) “Capisco il tuo stato d’animo”
I dirigenti hanno la misura del disagio dei loro collaboratori? Sanno di lavorare fianco a fianco con delle persone in carne e ossa che hanno dei desideri, delle debolezze, delle paure? Il “Ti capisco” detto da un leader a un suo sottoposto (specie se lontanissimo nella scala dei ruoli aziendali) ha il potere di convalidare i sentimenti. Non dimentichiamolo mai, siamo prima di tutto persone.
Il vantaggio di questo atteggiamento rivelerà tutta la sua forza quando sarà necessario assumere decisioni non favorevoli alla totalità del team aziendale.
4) “Ho sbagliato”
Ammettere di aver sbagliato, specie per un capo (il leader è tale proprio perché possiede la consapevolezza che può commettere degli errori), è una “verità” che spesso si fa di tutto per occultarla o, peggio, addossarla a qualcun altro, ovviamente, incolpevole.
Una squadra è degna di questo nome quando ogni componente si sente a proprio agio con i propri conflitti, compresi quelli che si instaurano con i dirigenti. Un leader che riconosce i propri torti fa emergere tutte quelle vulnerabilità che lo rendono umano. Solo in questo modo tutti si potranno sentire liberi di partecipare alle conversazioni con le proprie idee, senza temere censure semplicemente dettate dal differenziale di autorità.
5) “Sono sicuro che ce la farai”
La fiducia nei propri collaboratori va di pari passo con la stima. Senza generalizzare, molte delle competenze che le aziende cercano all’esterno le hanno già in casa. Si tratta solo di creare le condizioni (e gli spazi) affinché queste creatività inespresse possano “esplodere”. Solo il leader che sa apprezzare il lavoro degli altri potrà, a sua volta, vedere riconosciuto il valore del proprio.
6) “Ho tempo”
Dedicare il proprio tempo a qualcuno è come voler dire “Mi importa molto di te”. Quando un leader comunica alle persone del proprio staff che si è preso del tempo per valutare, discutere, affrontare un tema a loro caro, ecco che scatta la “magia” della relazione efficace.
Un semplice “Ho tempo” è contemporaneamente la cifra della considerazione, dell’apprezzamento, della soddisfazione.
7) “Grazie”
Non è raro che il ringraziamento finisca per diventare uno stereotipo delle buone maniere. E per questo, perdere quasi tutta la sua importanza.
Il “Grazie” che funziona (e che viene apprezzato) è quello specifico, verificabile, detto al momento giusto. “Grazie per aver preparato con tanta cura la nostra conferenza annuale” arriva dritto al cuore dell’interessato.