Fateci caso, durante la nostra vita attraversiamo due fasi piuttosto antitetiche. Quando siamo giovani investiamo gran parte delle nostre chances sull’aspetto poi, con l’avanzare dell’età, ci dedichiamo prevalentemente alla rappresentazione della nostra intelligenza. Non che la trasandatezza diventi all’improvviso la nostra nuova cifra stilistica, ma facciamo sempre meno caso alla superficie a vantaggio del contenuto.
Non so dire di preciso quando avvenga questa transizione, e di sicuro varia da persona a persona, pur tuttavia mi sembra che la faccenda, in una misura o in un’altra, riguardi praticamente tutti.
Nel mio caso, ho capito che stava succedendo qualcosa quando la famosa prima impressione se la giocava quasi tutta il cervello. In un certo senso, il guardare aveva lasciato il posto al vedere. E già, la parola vedere ha la stessa radice di idea e questo ci porta immediatamente a fare nostra l’intuizione per cui “non vediamo con gli occhi, ma con la mente”.
Insomma, a un certo punto il possibile stereotipato e il probabile scontato si fanno da parte e prende il sopravvento la sorpresa dell’interessante.
Il mondo è tridimensionale
Viviamo in un mondo iperspecializzato. Da un lato, questo approdo è stato inevitabile per poter gestire la complessità della conoscenza, ma dall’altro gestiamo la realtà solo attraverso un unico paio di lenti. Una rosa non viene vista nella stessa maniera da un botanico, da un fiorista o da un fotografo perché il loro sapere specifico ha finito per modellare la prestazione essenziale di quel fiore.
Ovviamente, la natura non sa nulla di tutto ciò. Anzi, potremmo addirittura affermare, senza paura di smentita, che se ne frega proprio.
Per questa ragione, il pensiero diventa affascinante quando abbraccia la dimensione olistica del mondo. Per dirla in un altro modo, non ci cattura il cervello di un professore di storia che per tutto il tempo ci parla delle invasioni barbariche, ma quello del suo collega che mette in relazione le tribù germaniche con il cinema, la poesia, lo sport.
È sempre il superamento della visione bidimensionale a farci ascoltare l’inedita melodia del cervello umano.
Il numero 9 visto da un’altra prospettiva è di fatto un 6. Cambiare punto di vista sulle cose non significa alimentare un’opinione perennemente traballante e incerta sui fatti del mondo, all’opposto è il modo migliore per trarre vantaggio da tutti i lati del paradosso.
Se io non vedo non credo
Questa frase che sentiamo ripetere fin da quando siamo nati è un’immane sciocchezza. Infatti, vorrebbe dire che diventerebbe automaticamente vero solo ciò di cui abbiamo un’esperienza diretta. Va da sé che contingenti limiti di tempo e/o di spazio non consentirebbero a nessuno di “toccare con gli occhi” tutto ciò che c’è sul pianeta e oltre.
Allora, la potenza della mente che ammalia è incastonata nella capacità di accumulare esperienze per via indiretta. È così che ci si rende conto di come nel cervello convivano consapevolmente modesti livelli di conoscenza e grandissime stratificazioni di ignoranza. Averne la piena consapevolezza ci permette di collocare nel giusto ordine e con l’importanza appropriata la saggezza, l’illusione e l’inevitabile incompetenza.
Per arrivare a distinguere questi tre livelli ci vuole tempo e il processo non si può mai dire del tutto concluso. Ma è proprio questa esplorazione continua che talvolta fa fare ai cervelli più attraenti l’ammissione più potente del sapere: non lo so.
Foto di Jukan Tateisi