Ho sempre nutrito una grande avversione per la definizione, tutta manageriale, di “risorse umane”.
Se da un lato c’è la considerazione del personale (talvolta, inteso anche come capitale umano) nella sua accezione di valore (alla stregua di una spesa d’investimento), dall’altro mi pare evidente la svalutazione della dimensione umana dei collaboratori. Come dire, nei vari tipi di risorse aziendali materiali e immateriali (gli immobili, le macchine, le tecnologie) vengono computati anche gli esseri umani, alla stregua di un “oggetto” inanimato.
Così, tutto si trasforma in numeri e grafici che poco raccontano delle storie individuali delle persone. Di conseguenza, risulta praticamente impossibile dare conto di valori (questi sì importanti) come la dignità e il rispetto. È da queste “risorse” che si sviluppano le competenze trasversali che, alla fine dei conti, sono la vera forza delle aziende più competitive.
Qualcuno obietterà che, in ogni caso, ci dovrà comunque essere un metodo di valutazione delle prestazioni dei lavoratori. Certo, ma ciò va fatto attraverso le conversazioni e non (solo) con i numeri che “identificano la risorsa” in questione. L’ascolto delle persone è la più grande operazione di sviluppo che un’azienda può fare perché le consente di capire cosa sta succedendo al suo interno e dove sta andando.
Dalle risorse alle relazioni
Una persona di grande valore (capacità, prestazioni, conoscenze) è sicuramente una stella molto brillante per l’azienda, ma il suo contributo diventa veramente significativo solo dentro un universo di scambi, di relazioni, di confronti.
Vista da un’altra prospettiva, non tutti vanno alla stessa velocità, ma è sempre la performance collettiva del team a determinare il raggiungimento degli obiettivi. Il risultato aziendale non lo fa il “primo della classe”, ma la classe nel suo insieme.
I feedback sono molto più importanti dei numeri
Quando si arriva a giudicare solo a fine esercizio (le risorse umane stanno nel bilancio insieme a tutte le altre), senza minimamente porsi il problema del dialogo continuo (leggasi micro-formazione) come momento strumentale e strategico, è naturale che, prima o poi, le questioni più controverse sfuggiranno di mano.
Il passato non può essere cambiato (specie se è vecchio di un anno), mentre gli aggiustamenti giornalieri sono quelli che danno un volto al futuro.
I risultati hanno una mente, un cuore e delle mani
Il successo non nasce con l’etichetta di “buona la prima”, ma è sempre frutto di errori. Concentrarsi troppo sull’efficienza delle macchine (che non sbagliano mai), come se queste incarnassero in un colpo solo il cyborg aziendale nella sua qualità (e quantità) di risorsa (in)umana, non fa vedere tutto il potenziale delle pulsioni racchiuse nei sistemi biologici.
Se tutto si riduce a risorse, paragonando di fatto il sangue pompato dal cuore all’elettricità che dà “vita” alle macchine, è molto probabile che i propri collaboratori diventeranno vittime predilette della frustrazione, della delusione, della rabbia.
È perché siamo esseri umani, e non risorse umane, che pretendiamo e diamo rispetto, che vogliamo ci sia riconosciuta tutta la fiducia necessaria, che ci piace appartenere a una comunità emotiva e non a un foglio di Excel.
Il lavoro non è un videogioco
Abbiamo solo una vita, per questo il concetto di passare al “livello successivo” non può essere fatto per tentativi, come nei videogiochi, dove finita la dotazione delle “vite” si può sempre resettare e ricominciare daccapo.
Tutti aspiriamo a una buona carriera professionale, ma la competizione fra le risorse umane (perché questa definizione porta inevitabilmente alla guerra esclusiva sui numeri) non fa bene all’azienda e tanto meno all’equilibrio psico-fisico delle persone.
Quello di cui abbiamo bisogno non è “salire al prossimo livello”, quanto raggiungere il punto dell’auto-realizzazione personale.
Dentro questo spazio c’è la bellezza, c’è l’arte, c’è la fantasia. Si tratta di tutte peculiarità aliene alle risorse, ancorché definite (nostro malgrado) umane.