Esiste un indicatore univoco dell’intelligenza? Cioè, si può quantificare questa capacità in senso pratico o concettuale? La sua cifra è più una misura dell’esperienza o della contingenza?
Le domande potrebbero continuare all’infinito e, con una relativa certezza, restare tutte senza una risposta definitiva.
Nella vita di tutti noi c’è una sorta di momento zero in cui l’istituzione scolastica comincia a fissare (con non poca presunzione di verità) dei range analitici dell’intelligenza.
Ora, è mia convinzione che, ancora oggi, la scuola sia vittima di un equivoco che confonde nozionismo e conoscenza. Dentro questa visione distorta, viene classificato “bravo” (e quindi anche “intelligente”) colui che risponde a segno alle domande. Ma quanta differenza passa fra saper rispondere e saper capire?
Intelligenza o intelligenze?
Così, il tema che si pone non può che considerare più intelligenze (linguistica, logico-matematica, spaziale, pratica, musicale, relazionale, ambientale, emotiva) che ci appartengono in misura variabile. Ne deriva che “essere istruiti” non corrisponde necessariamente a un riconoscimento di intelligenza assoluta.
Una prova del fatto che l’intelligenza “usabile” va oltre la sua pura e semplice cristallizzazione, ma è in tutto e per tutto fluida. Ovvero, un apprendimento che si mette subito a disposizione per risolvere un problema, per acquisire nuove abilità, per collegarsi a memorie più vecchie allo scopo di “interpretarle” alla luce dei nuovi saperi.
L’intelligenza si nutre con i libri, ma anche con la sperimentazione. È solo quando i due processi “dialogano” tra loro che si trasformano in conoscenza vera e propria. Ovviamente, più ci “immergiamo” in un argomento e più ne sappiamo, ma per come è fatto il nostro cervello, che quando ha capito cose nuove, smette di impegnarsi con lo stessa intensità, l’intelligenza fluida può rimanere attiva solo se attratta dalla curiosità di creare continuamente connessioni non scontate.
Il passaggio chiave è transitare dall’associazione (“questa cosa che ho imparato assomiglia a quell’altra cosa che già conosco”) alla connessione (“questa cosa che ho imparato, messa insieme a quell’altra cosa che già conosco, mi ha fatto imparare una cosa completamente nuova”).
La memoria gioca indubbiamente un ruolo importante, ma la capacità di “vedere il labirinto dall’alto” lo è altrettanto. Fino a quando siamo dominati dalla nozione, la nostra unica possibilità è quella di muoverci sostanzialmente a caso. Ci potrà andare bene, ma molto più spesso non troveremo la via d’uscita.
Per balzare fuori dal dedalo, dobbiamo avere sotto gli occhi la più ampia porzione di mappa possibile.
Come fare? C’è solo un modo: sbagliare.
Fino a quando ci accontentiamo della nozione, la nostra mappa (si fa per dire) sarà una linea che va da A a B, ignorando completamente la possibilità di poter passare da C o da D. Se il nostro mondo è a due dimensioni, finiamo addirittura di ritenere dei pazzi coloro che ci vogliono far credere che esista anche la tridimensionalità.
Le persone dotate di intelligenza fluida sbagliano molto, anzi moltissimo. Il motivo è semplice, non si accontentano di stare sopra il pelo dell’acqua, si immergono continuamente senza sapere ciò che troveranno. Ma, cosa ancora più importante, non pongono un limite alla profondità dei fondali cognitivi che scandagliano.
Insomma, lanciano una sfida senza tregua al loro modo di pensare, ai loro punti di vista, all’accettazione incondizionata della loro coerenza. Per dirlo in altri termini, le opinioni diventano forti se si tiene in conto la possibilità di metterle continuamente in discussione.
Può sembrare una contraddizione, ma a pensarci bene noi possiamo “vedere”, “ascoltare” e “immaginare” nuovi scenari solo quando non siamo troppo affezionati a quelli a cui siamo convinti di credere.