Mi ha sempre affascinato la definizione di non luoghi. Posti dove per definizione non albergano le forme tradizionali della socialità: supermercati, aeroporti, stazioni di servizio. Spazi antropizzati, ma privi di relazioni umane durature, destinate per converso a dissolversi nel transito o nella provvisorietà dell’atto specifico (vado a fare il pieno e non trascorro certo la serata “in amicizia” fra le colonnine della benzina e del diesel).
Poi, un giorno di questi, mi accorgo (chissà da quanto tempo convivevo con questa distrazione) che le relazioni umane, senza stare a spigolare troppo sulla loro qualità, possono avere luogo (è proprio il caso di dirlo) dappertutto. Farò la parte dell’ultimo arrivato, ma sono rimasto stupito da come il sabato pomeriggio intere famiglie si diano appuntamento nei centri commerciali. Un non luogo per antonomasia, secondo i canoni definiti da Marc Augé, si trasforma in un punto di incontro autentico, al pari dei bar, delle piazze, del parchi.
Sarà vera gloria? Lascio il dubbio al poeta e mi limito ad aspettare la sentenza del tempo. Nel frattempo, vorrei tuttavia tentare qualche riflessione a margine e tirarci in mezzo internet con tutto il mondo che ci gira dentro. Del resto, mi pare del tutto superato l’approccio alla rete in termini esclusivamente tecnologici a vantaggio di una valutazione che privilegia questo spazio come luogo di relazione. Non sembra anche a voi che una discussione attorno a un post di Facebook possa diventare più socializzante di un autogrill alle undici di sera del lunedì (un non luogo per definizione, sebbene “reale”)?
A questo punto la domanda che si pone è se c’è differenza fra la sostituzione di un luogo fisico (il centro storico) con la sua copia artificiale (il centro commerciale) e il “costruirsi” un’identità virtuale (sui social media) in parallelo o, sempre più spesso, in sostituzione a quella analogica. In entrambi i casi i tratti della fiction sembrano addirittura sovrapporsi in più punti. Mi riferisco alla dimensione spaziale (il tessuto urbano storico-architettonico vero condensato in una galleria commerciale finta e le relazioni interpersonali che il web consente di “toccare” nonostante le distanze planetarie), alla velocità (nel centro commerciale si può comprare di tutto rapidamente e sul web il “consumo” di relazioni è temporalmente vertiginoso), alla singolarità (il carrello e il computer sono le nuove armi effimere del potere individuale: crediamo di essere padroni di comprare ciò che ci pare e di comunicare senza vincoli e in piena libertà).
L’elevazione di rango, da centro commerciale a luogo della socialità, può rivelarsi come la vittoria della società dei consumi. Esisto nel momento stesso in cui consumo e, quindi, devo necessariamente rappresentare agli altri il segno di questa “vitalità” socializzando i miei acquisti sotto lo stesso tempio. Al pari, sul web il culmine dell’esistenza è attraversare lo schermo del computer, vale a dire vedersi “confermati” da migliaia di amici, di followers e di visualizzazioni su YouTube.
Si genera così una sorta di “realtà” in cui i diversi layers (virtuali e analogici) che la compongono diventano di fatto un’unica superficie. Un’immensa Disneyland in cui “Sex and the City” deve necessariamente materializzarsi dentro New York e non rimanere solo una fiction televisiva. Lo vuole la gente, direbbe qualcuno.
Se tutto questo faccia parte di una narrazione globale e globalizzante è forse presto per dirlo. Di certo c’è meno oscillazione fra il vero e il non vero, con la conseguente “umanizzazione” di esperienze rapide ed eteree, consumate prima ancora di sperimentarle “dal vivo”. Anzi, sono sempre più pervasivi il “già visto” e il “già fatto”, scambiando lo stupore con il consumo.
E così, quasi senza accorgercene, alla stregua della proverbiale rana fatta bollire piano piano, siamo passati dalla comunità alla community. Alla pacca sulla spalla si è sostituita la sua immagine. Non sarà un granché, ma ha già collezionato mille “mi piace”.