Parafrasando il celebre saggio di Eric Hobsbawm, si può dire che il 2020 abbia tutte le carte in regola per diventare “l’anno breve”.
Infatti, la diffusione del virus ha letteralmente cancellato la routine ordinaria (e automatica) di mesi interi, trasformando di colpo le nostre (ponderate?) abitudini. Siamo passati dall’essere gli assoluti protagonisti delle nostre azioni a “semplici” spettatori, in balia di una minuscola entità biologica.
Attività chiuse in tutta velocità e l’altrettanto rapido passaggio a “nuove” modalità di apprendimento a distanza, hanno costretto la formazione aziendale a fare soprattutto i conti con se stessa.
Una sorte che è toccata anche agli ambiti scolastici dove, come era logico intuire, i problemi si sono presentati con un grado di complessità assai superiore, dato il violento impatto delle nuove metodiche su un sistema educativo storicamente poco reattivo ai cambiamenti.
La trasformazione che avanzava, ma che nessuno (o quasi) vedeva
I grandi disastri o, se si preferisce, in maniera più soft, i tempi di incertezza sono degli acceleratori di movimenti già presenti, ancorché sotto forma di espressioni in gran parte squisitamente teoriche.
In questo senso, che la formazione aziendale avesse bisogno di una “regolazione del minimo”, a prescindere dalla pandemia, era cosa nota e, a corrente alternata, anche invocata.
Da tempo si avvertiva l’esigenza di aggiustamenti strutturali come, ad esempio, la transizione da un format improntato esclusivamente sulla durata oraria a uno più orientato agli obiettivi da raggiungere. Ecco allora che la formazione a distanza ha portato in superficie la necessità di una rimodulazione dei palinsesti e, presto o tardi, il “nuovo corso” troverà caratteri di concretezza anche nella didattica in presenza.
Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo (della formazione)
Ogni volta che un fattore imprevedibile ha imposto una deviazione alla mia rotta, questo si è sempre risolto nell’occasione per ritornare a pormi le domande essenziali. Ovvero, quali erano le mie priorità e, di converso, come potevo trovare nuovamente la motivazione e l’ispirazione.
La novità è generalmente elettrizzante, ma può anche mostrare la sua faccia più tenebrosa. È il suo lato arrogante, sprezzante dello status quo, che può intimidirci a tal punto da paralizzarci. Insomma, per quanto stimolante, il “nuovo” contiene sempre una sfida con noi stessi.
Si tratta allora di mollare gli ormeggi e di abbandonare le nostre confortanti certezze (i tempi replicati con lo stesso ritmo, le slide fatte in un certo modo, le prevedibili interazioni) per ricreare dei modelli più consoni al mutamento di scenario.
In un certo senso, è stato come (ri)scoprire – non senza stupore – quanta passione avevo sepolto sotto le abitudini di tutti i giorni.
Quindi, per me è stato il momento giusto per rivedere la struttura dei miei corsi e accorgermi che avevo davanti un grosso lavoro di sottrazione: meno slide, meno divagazioni, meno “rumore”.
La ragione dell’irragionevolezza
Si è trattato di un lavoro non semplice. E devo confessare che nelle fasi iniziali dell’impresa mi sono chiesto più volte machimelofafare, con molta voglia di lasciare il mondo così com’era. Dopotutto, non avevo alcun obbligo e potevo benissimo continuare a fare come avevo sempre fatto.
Ma ecco accendersi la lampadina. Chi ha la responsabilità di trasferire ad altri delle conoscenze, ha un vincolo imprescindibile, quello di non accettare mai le cose per come sono, ma di impegnarsi per come dovrebbero essere. Solo così l’insegnamento cessa di essere unicamente una mera e sterile nozione, diventando un vero e proprio esempio di vita.
Come dire, la ragione (che spesso fa rima con la comodità) vorrebbe che ci adattassimo al mondo, mentre è solo grazie all’irragionevolezza che possiamo modellare il futuro secondo forme inusuali.
Imparare, disimparare, imparare di nuovo. È racchiusa dentro questo processo circolare l’essenza persistente della formazione.
Credi nel senso di quello che fai?
Qualche anno fa, un ministro ebbe addirittura l’ardire di affermare che “con la cultura non si mangia”, facendo presagire che il sapere sarebbe marginale (o del tutto insignificante) rispetto a cose “più concrete” come evidentemente, ça va sans dire, l’economia.
La frase ne ha fatta di strada, tanto che oggi il non sapere pare essere diventato un modus più venerato della stessa conoscenza. Prima che sui social, avevamo già avuto un assaggio di questo andazzo nei vari reality dove le abilità dei partecipanti dovevano – da copione – convergere verso il punto zero di non possedere alcuna opinione marcata.
Sembrerà paradossale, ma tutto questo nasce anche dalla scarsa considerazione che hanno di sé gli stessi protagonisti dell’insegnamento a tutti i livelli. Con punte ancora più al ribasso per quanto riguarda i formatori aziendali.
Possiamo diventare un “modello culturale” se siamo noi i primi a manifestare sfiducia nel senso di ciò che facciamo? Non è un caso che il rimescolamento delle carte, a opera della pandemia, abbia posto anche l’accento sulla “formazione della formazione”.
Fuori da ogni intento polemico, sarebbe davvero giunto il momento di confezionare gli argomenti dei corsi in sinergia con chi materialmente li eseguirà. In un colpo solo si otterrebbero due risultati: una migliore qualità dell’insegnamento e una maggiore motivazione del docente.
E, lo voglio ripetere ancora una volta, il secondo aspetto è quello che dà significato a tutta la formazione aziendale.