Quando si parla molto di una questione, di solito è per due ragioni: o perché ha forti caratteri di concretezza oppure non se ne vede nemmeno l’ombra. La faccenda delle smart city rientra a pieno titolo nel secondo caso.
In tempo di elezioni “la città intelligente” è sempre sulla bocca di tutti i candidati, dopodiché viene sfoggiata solo dagli eletti nei contesti più disparati, soventemente quando non hanno niente da dire. È la politica delle parole vuote, bellezza!
In ogni caso, anche l’approccio “politico” è quasi sempre tecnico, lasciando le persone sullo sfondo, praticamente invisibili. Insomma, una città impersonale, dove la risposta alla crescente domanda di sicurezza passa solo attraverso l’installazione di un maggior numero di videocamere.
Sto parlando di una visione tecnocentrica già ampiamente smontata dalla tesi numero uno del nuovo Cluetrain Manifesto:
Internet non è fatto di cavi di rame, fibre di vetro, onde radio e nemmeno di condotti.
Le strategie smart hanno senso e utilità solo se mettono al centro il city user, il vero medium della rete digital-urbana.
Da dove partire? Dalle parole e dal loro senso concreto
Alfabetizzazione digitale
È un tema che i comuni dovrebbero porre urgentemente al centro del dialogo con i cittadini. Già oggi, per molta parte delle attività tipiche della pubblica amministrazione, è possibile spostare solo dei bit anziché delle persone con un foglio di carta in mano. In questo caso, gli strumenti ci sono, manca solo la volontà (non solo politica).
Open
Con il tempo necessario (formazione e sistemi) va messa nelle priorità la transizione verso protocolli aperti, sia per garantire a tutti l’interoperabilità che per spezzare la logica perversa del lock-in tecnologico. Si inserisce su questa lunghezza d’onda anche il tema degli open data. Una città “aperta” in cui i vari livelli si intersecano (reti tecnologiche, percorsi dei mezzi pubblici, tempi delle attività pubbliche e private, etc.), può permettere agli stakeholders economici e sociali di suggerire e migliorare ciò che un tempo veniva chiamata “qualità della vita”.
Concertazione e partecipazione
Senza demonizzare i vecchi strumenti del confronto democratico (riunioni, assemblee, conferenze), che restano comunque efficaci e compatibili con le nuove modalità, la co-progettazione dovrebbe prevedere anche forme inedite di collaborazione fra istituzioni e cittadini. A questo proposito, perché non sollecitare il dibattito sugli strumenti di programmazione territoriale attraverso elementi di gamification?
Reti civiche
Superata la fase (ormai da una decina di anni) in cui il sito web del comune “qualunque fosse” era già di per sé un indicatore di “modernità”, oggi la presenza sul web delle pubbliche amministrazioni deve inevitabilmente connotarsi come un servizio. Invece, i portali dei comuni sono zeppi di informazioni (comprese quelle obbligatorie per legge), mentre troppo spesso manca quella usabilità minima che consentirebbe al cittadino di trovare agevolmente ciò che cerca. Senza attendere il web 3.0, migliori tecniche di rappresentazione grafica potrebbero da subito diradare la nebbia che staziona stabilmente in molti siti pubblici. Un discorso a parte riguarda la possibilità di compilare un modulo online per le segnalazioni e non ricevere alcuna risposta, anche a distanza di mesi. In questo caso, più che la programmazione del sito c’entra la mancanza di tocco umano.
Associazionismo e terzo settore
Rappresentano la fetta più grossa degli attori della vita cittadina. Un tessuto ricchissimo di competenze e di capacità immediatamente disponibili, a bassissimo costo se non addirittura gratuitamente. Il comune smart è quello che abbandona la logica dei contributi a pioggia (spesso estremamente polverizzati) per diventare un vero e proprio facilitatore di scambi e di opportunità. Dalle scuole ai centri sociali per gli anziani c’è tutto un mondo di volontari pronti a mettersi in gioco.