L’ibrido

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Il primo “computer” l’ho avuto nel 1982, l’anno dei mondiali è stato per me anche quello del Commodore Vic20, poi è arrivato il più performante C64 (per quei tempi sembrava di stare in una consolle della NASA) e via di questo passo con la vertigine tecnologica che non dava tregua: 8088, 286, 386, 386 con il co-processore matematico, il 486, i vari Pentium, i core-qualcosa e gli ultimi i3, i5, i7. Di certo, se mai ci sarà, mi accaparrerò anche il futuribile i9.

Non avevo il motorino, giravo in bicicletta. Una cosa che oggi farebbe molto green, ma all’epoca era semplicemente da sfigati. La pallina quadrata di Pong, Geos e l’elisir di lunga vita per il C64, le BBS e i primi esperimenti con il Packet Radio a 1200 baud hanno accelerato il mio processo di ibridizzazione analogico-digitale. Se dovessi scegliere una colonna sonora per identificare questa terra di mezzo, sceglierei senz’altro Start Me Up dei Rolling Stones. Non solo perché odorava di vinile (la plastica della “mia” musica), ma per il fatto che visse ancora una sua seconda giovinezza una ventina d’anni dopo grazie all’abbinamento con il lancio di Windows 95, il primo vero sistema operativo di casa Redmond con una interfaccia grafica degna di questo nome. Linux e i comandi da terminale per me sarebbero arrivati solo una decina d’anni dopo.

Insomma, per uno che viene da un mondo in cui si andava al ristorante o al cinema con l’autoradio sottobraccio è stato un percorso di tutto rispetto. Almeno credo. In ogni caso, penso di avere trovato la mia linea di galleggiamento in questo pezzo d’universo sempre meno atomico e sempre più “costruito” con i bit. Come dire, mi sento piuttosto a mio agio fra cloud, server e feed quotidiani.

Quando si parla di analogico e digitale le classificazioni si sprecano. A grandi linee, il dibattito converge verso tre grandi macro categorie. Ci sono gli analogici “duri e puri” che si vantano di non avere il computer e di abiurare qualsiasi tecnologia digitale, salvo poi ritirare i soldi dal Bancomat, ci sono gli ibridi che si ricordano cos’era un giradischi e oggi hanno mille tracce audio nella memoria dei loro smartphone e poi c’è la nuova generazione, quella dei cosiddetti nativi digitali.

In estrema sintesi, che si ammetta o no l’esistenza di un’intelligenza numerica, il cervello di chiunque è già oggi in grado di processare una gran numero di stimoli digitali. Rispetto alle categorie appena inquadrate cambiano solo la modalità e la velocità di approccio. Tecnicamente, gli analogici e gli ibridi si riconoscono perché cercano ancora il manuale delle istruzioni.

In mezzo al guado c’è questo tempo liquido in cui convivono dialetticamente conservatori intimoriti dalla nuova “natura” dell’essere digitale ed entusiasti che riversano tutto il loro fanatismo verso ogni nuovo gingillo tecnologico. Ma voler far discendere da questa contrapposizione due socialità, due modi diversi di lavorare, due moralità e forse anche due etiche appare, nonostante tutto, piuttosto azzardato. Banalizzando, chi non ha un profilo Facebook è comunque “dentro” questo e altri social media se si parla di lui in quei contesti.

Probabilmente, d’ora in avanti il vero terreno di confronto andrà spostato sulla relazione fra l’Uomo e la Tecnologia, entrambi in senso lato. Si ripropone dunque l’ibrido, questa volta con un nuovo paradigma: non più (o non solo) rispetto a come reagisce di fronte alla sovrapposizione di vecchi e nuovi media, ma soprattutto in relazione al cambiamento in atto dello spazio (riduzione delle distanze), del tempo (la dittatura dell’istantaneità), degli scambi (perdita di significato di termini come locale e globale).

In questa prospettiva, l’ibrido (il tecno-umano) cercherà con tutte le sue forze di dimostrare che in fondo fra online e offline non c’è soluzione di continuità. Un campo di grano e l’immagine sintetica di una spiga si toccano in quanto frutto della stessa intelligenza umana che li ha generati. Il virtuale che oggi appare all’uomo come altro da sé rappresenta forse solo l’ultima(?) sfida evolutiva fra la vita biologica e il suo specchio digitale. Il futuro si gioca qui, chi fra le due sarà l’influencer e chi il follower?

Di Sergio Gridelli

Sono nato e vivo a Savignano sul Rubicone (FC), una piccola città della Romagna attraversata dal fiume che segnò i destini di Roma. PERCHÉ LO FACCIO Ho sempre pensato che l’impronta di ciascuno di noi dipenda da un miscuglio di personalità e di tecnica. Se questi due ingredienti sono in equilibrio nasce uno stile di comunicazione unico, subito riconoscibile fra tutti gli altri. Perché in un mondo tutto marrone, una Mucca Viola si vede eccome! COME LO FACCIO Aiuto le persone a trovare le motivazioni che le rendono uniche. Non vendo il pane, vendo il lievito. COSA FACCIO Mi occupo di comunicazione aziendale e della elaborazione di contenuti per il web. Curo i profili social di aziende e professionisti. Tengo corsi sulla comunicazione interpersonale, il public speaking, il marketing digitale e su come realizzare presentazioni multimediali efficaci.

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