Da quando è diventata un’estensione della nostra socialità, la rete è stata metaforicamente rappresentata come una sorta di autostrada delle informazioni. Miliardi di “macchine” che sfrecciano in tutte le direzioni senza soluzione di continuità.
Già l’univocità del processo comunicativo rappresenta un problema di non poco conto, figuriamoci cosa succede se alla guida di queste immaginarie automobili ci sono delle sagome di cartone al posto degli autisti in carne e ossa. Come nel mondo analogico, anche qui non mancano gli “incidenti” e non solo quelli di natura cognitiva. Se, come pare, oltre la metà degli utenti di internet è costituita da programmi (roBOT, spammer e tool di vario genere) è verosimile pensare che anche nelle piattaforme sociali buona parte delle interazioni non afferiscano alla categoria umano-umano.
I roBOT sono in grado di fare praticamente tutto: condividono i post (io stesso ne ho un paio su Twitter), compilano i form, commentano gli articoli sui blog, inviano mail. Spesso by-passando gli odiosi (per noi umani) captcha.
Non escludo la possibilità di utilizzi non malevoli delle false identità, per esempio mi viene in mente la creazione di un fake per controllare la visualizzazione “lato utente” di una pagina Facebook che amministriamo con il nostro profilo, ma non c’è dubbio che si tratti di mosche bianche.
Un altro versante è quello dei proxy e dei web spider dei motori di ricerca. Anche se, in quest’ultimo caso, la linea di confine fra buono e cattivo non sempre è definita. Infatti, la raccolta di informazioni in maniera automatica e ignota (gli algoritmi di Google non sono pubblici) invade pesantemente la privacy delle persone.
La questione dei roBOT non è di facile soluzione
Da un lato la complessità della rete aumenta con velocità vertiginose (si pensi solo a cosa potrà succedere fra qualche tempo quando andrà a regime l’internet delle cose) e dall’altro bloccare i roBOT significherebbe rallentare, se non addirittura arrestare completamente, il flusso dei dati.
La prima causa delle falle informatiche si trova fra lo schienale della poltrona e il monitor. In questo caso, avere coscienza e consapevolezza del fenomeno sarebbe già un ottimo punto di partenza.
La socialità in rete ha fatto convergere elementi fino a quel momento estranei gli uni agli altri. Se in una piazza virtuale vocata alle chiacchiere (il termine tecnico è cazzeggiamento) irrompe il marketing ecco che tutto cambia. I numeri si gonfiano, le statistiche schizzano con metriche esponenziali, le quantità diventano incommensurabilmente più significative delle qualità (almeno agli occhi di certe aziende).
Gli articoli dei miracoli (Da “Come aumentare in poco tempo i fan di Facebook” a “1000 Mi Piace con meno di 5 euro”) inanellano numeri da capogiro (visite e altro) per il semplice fatto che sono la stessa faccia del problema.
Capisco che sia più sbrigativo, immediato e mirabolante presentare un report con incrementi di followers a quadrupla cifra, ma non è così che si arriva il successo.
Per uscire dal cortocircuito del doping bisogna cominciare a spiegare chiaramente da dove arrivano i referral, cosa significa registrare un’alta frequenza di rimbalzo, che il “traffico” comprato non produce interazioni e, di conseguenza, risultati.
Sono argomenti relativamente difficili per i non addetti ai lavori, ma la responsabilità e l’esito della comunicazione dipendono esclusivamente da colui che comunica, quindi da noi che facciamo questo mestiere. Ora, il punto è: vogliamo davvero raccontare queste cose?