Dopo le micidiali “Allora, quando ti laurei?” e “Ormai stai invecchiando, quando ti sposi?”, ci sono altre due domande ricorrenti nelle canoniche rimpatriate con tutto il parentado: “Hai deciso cosa farai da grande?” e, in maniera ancora più subdola, “Come ti immagini fra 10 anni?”.
Quest’ultimo quesito, fatto proprio da tutti i selezionatori del personale del mondo, almeno nelle intenzioni più sincere, punta a capire se “abbiamo un piano” per la nostra carriera professionale.
Avere, per quanto possibile, le idee chiare circa i propri propositi di vita è sicuramente un vantaggio competitivo non da poco. Non fosse altro che le ambizioni e le aspirazioni personali trovano le condizioni ideali di maturazione proprio dentro un contesto programmato.
Poi, lo sappiamo, la vita si diverte a prenderci in giro e lo fa sempre con il massimo di serietà. Pensiamo a quando, quattordicenni, abbiamo scelto (o, più verosimilmente, ci hanno fatto scegliere) gli indirizzi di studio superiori. Magari in quel frangente, sia che avessimo deciso la scuola in autonomia o in maniera eterodiretta, eravamo anche convinti del passo intrapreso, ma ecco che due anni dopo ci siamo ritrovati a chiederci “Ma cosa ci faccio qui?”.
Forse nulla si era spostato di un millimetro, ma la nostra adolescenza ci stava trasformando alla velocità della luce. Il mondo, scenario di riferimento delle nostre scelte, era tutto un altro mondo che non riconoscevamo più per il semplice fatto che noi non eravamo più gli stessi.
Abbiamo un piano? Andiamo piano
La vita di ciascuno di noi è piena zeppa di “buoni propositi” e, inevitabilmente, anche di piani B, piani C… piani Z.
Se c’è un’altalena sulla quale oscilliamo per tutta la vita, questa danza senza sosta fra il flusso delle difficoltà da affrontare man mano che si presentano e gli obiettivi a più grande respiro che ci poniamo allo scopo di realizzarci. Almeno così pensiamo.
Il bello del futuro è che arriva sempre un poco alla volta, dandoci così il tempo di tentare l’inversione di rotta nel caso che da giorni, o da mesi, ci trovassimo sballottati dentro una tempesta. Facile a dirsi.
In realtà, per come è fatta la maggioranza delle persone, è molto forte la tendenza a divanarsi sulle avversità, ripetendo come un disco rotto i classici adagi che conosciamo a memoria: “Ce l’hanno tutti con me”, “Ormai, alla mia età dove vuoi che vada?”, “Tu dici bene, ma non sei nei miei panni”.
Non biasimo nessuno, ognuno è responsabile delle proprie scelte e lungi da me dispensare soluzioni miracolose, ma per quello che può servire ritengo che non ci sia nulla di più vicino al futuro come scrivere con una certa continuità.
Scrivere, un buon piano
Mi chiedo spesso perché scrivo. Soprattutto in riferimento a quelle scritture per le quali non è previsto un corrispettivo economico diretto, come il caso di questo blog.
Certo, non escludo che scrivere “gratis” faccia in qualche modo rima con “visibilità” e, alla lunga, tutto concorra a portare acqua al mio mulino professionale, pur tuttavia mi piace pensare che intrecciare parole, oltre al puro piacere di farlo, mi dia anche la possibilità di “vedere” al di là delle consuete dimensioni spazio-temporali.
Raccontare delle storie significa tradurre l’intimità del proprio pensiero nella sua realtà più immediata. In un certo senso, è come togliere il velo dal futuro. Ovvero, un’operazione in cui ogni cosa è e non è nello stesso istante.
Per questo, sono convinto che la più grande magia della scrittura si debba ricercare proprio nel suo modo di stare fuori dallo spettro del visibile, da tutto ciò che deve ancora accadere, dalla misura del tempo.
Foto di CJ Dayrit