Scrivere è sempre una capriola all’indietro senza mai sapere se ci sarà la rete di protezione. Qualcuno sarà interessato alle nostre idee? Verremo apprezzati? Ci aspetta una critica feroce? Sono tutti pensieri ricorrenti nella mente di chi scrive. Specie se la scrittura ha risvolti non indifferenti sul posizionamento di un’azienda.
Certo, lavorare in miniera è ben peggio. Tuttavia, la frustrazione “da scrittura” rischia di lasciare completamente il comando delle operazioni a una mera e sfuocata speranza. È vero, la speranza è sempre l’ultima a morire, ma in ogni caso non può essere una strategia.
Gira e rigira sono giunto alla conclusione che la chiave di tutto (o quasi) risieda nella fede nel proprio metodo. Vale a dire, sentirsi ancorati a delle guide che, nonostante le facce dello scrivere siano sempre differenti, diano un confortante senso di compiutezza.
Di quale metodo si tratta? Niente di rivoluzionario, solo una tecnica del tipo “se si verifica A, allora scrivi B”.
1. Il messaggio sfuocato
Gli imprenditori sanno perfettamente “cosa fanno e come lo fanno”, ma spesso nei loro strumenti di comunicazione manca un filo comune fra le passioni, le abilità, i risultati. In poche parole, raccontano molto di tutto perdendo di vista il messaggio principale, ovvero “perché lo fanno”.
Il cuore del messaggio, che è poi quello che le persone vogliono leggere, va individuato in ciò che anima l’azienda. Una narrazione che lascia sullo sfondo le cose per mettere in primo piano le esperienze. In fondo, ciò che compriamo sono sempre degli stati d’animo.
[bctt tweet=”Il racconto di un’azienda è il suo valore, non quello dei suoi prodotti.” username=”giowile”]
2. La mucca viola
Il paradigma della “azienda leader di mercato” è talmente diffuso da sospettare l’esistenza di tanti mercati quante sono le aziende. Tutti leader di mercato equivale a dire che nessuno è leader di nessun mercato. Ne deriva una comunicazione priva di entusiasmo, di convinzione, di emozione.
Le parole d’ordine che usano tutti fanno perdere ogni qualsivoglia autenticità al messaggio che si vuole (o vorrebbe) comunicare.
Le cosiddette parole povere, in questo caso, sono la vera ricchezza della comunicazione aziendale. Essere sé stessi significa “parlare come mangia l’azienda”, cioè trasmettere quella personalità che scaturisce da una frase illuminante del fondatore (“Consegnavo i prodotti con la bicicletta, adesso vendiamo in 80 paesi nel mondo…”), da un modo di dire che è diventato il marchio di fabbrica della medesima (“Lavoriamo solo due ore al giorno, il resto è passione…”), da un circostanza apparentemente marginale, ma che ha fatto la differenza (“Se quel pomeriggio non ci fossimo allagati, non avremmo mai immaginato di poter costruire la nostra nuova sede…”).
[bctt tweet=”Rischiare di non conformarsi alla massa è l’unico modo per distinguersi.” username=”giowile”]
3. Scrivere, allineare, sostenere
Scrivere presentazioni aziendali roboanti, senza curare coerentemente tutti i canali, può fare male. Molto male.
Infatti, narrare di mettere al centro di ogni processo le persone e trascurare completamente il customer care (telefonico o sui social media) fa sentire puzza di bruciato da molto lontano.
Per questa ragione, un bravo storyteller, prima della ricerca dell’eleganza o della sofisticazione espositiva, sincronizza le parole chiave su tutti i mezzi.
La storia che si vuole raccontare non si esaurisce con il “Chi siamo” sul sito web o nell’introduzione sulla patinatissima brochure aziendale, ma si anima con la cortesia del call-center, la precisione della newsletter, la disponibilità al desk della fiera. Tutti momenti dove le parole contano e devono essere allineate con quelle che descrivono l’azienda.
Non si tratta solo di sfuggire dalla schizofrenia che affligge molte aziende (da quelle “leader di mercato” alle “noi-centriche”), ma la questione è tutta nella dimostrazione concreta che per correre è necessario prima imparare a camminare.
[bctt tweet=”Lo storytelling comincia da quando l’azienda risponde al telefono.” username=”giowile”]