Perché il tiro alla fune non è uno sport che fa bene alle aziende?

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Una gara di tiro alla fune

Ormai ho perso il conto delle hall aziendali in cui giganteggia il classico poster motivazionale (sic!) raffigurante degli energumeni che tirano alla fune.

Nelle intenzioni del management c’è sicuramente l’idea (assai ingenua) della “grande famiglia” coesa e tutta orientata al raggiungimento dei risultati. Ma la verità è tutta un’altra.

Tanto per cominciare, non si è mai vista un’organizzazione in cui tutti fanno la stessa cosa (tirare), perdendo così di vista la differenza fondamentale fra il gruppo e la squadra.

Anni fa rimasi molto sorpreso nell’ascoltare un bambino che chiedeva alle istituzioni un “campo senza allenatore”, come dire che il divertimento finalizzato a se stesso non ha bisogno dei ruoli. Quel bambino aveva ragione proprio perché inseguire tutti insieme il pallone era sinonimo di felicità per lui e per il suo gruppo. La felicità ripudia la complessità.

Le cose cambiano, e di molto, quando c’è in ballo un risultato da perseguire. Ecco allora che il gruppo (“siamo una grande famiglia”) non basta più, servono una precisa organizzazione e un’attenta suddivisione dei ruoli. Serve una squadra.

In una squadra di calcio, giusto per sintetizzare, c’è il portiere che ha le capacità per parare un rigore e c’è il centravanti che allena le sue abilità per fare goal. Questo è ciò che viene definito “gioco di squadra”, ovvero un metodo con dei ruoli e delle regole.

Dai tempi di Durkheim, la suddivisione delle funzioni e dei ruoli ha rappresentato uno dei dibattiti più accesi nella relazione fra individui e comunità. Un concetto che molto spesso ha travalicato la sua cifra economica per approdare al ben più ampio spazio della differenziazione sociale.

A questo punto, sarebbe davvero imprudente credere che la “semplice” articolazione dei ruoli possa essere essa stessa fonte di un “meccanismo perfetto”. Già dalla rivoluzione industriale, fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, sono emerse – anche in maniera catastrofica – le profonde dissonanze fra le aspirazioni individuali e la realtà di contesto. È questo il concetto di anomia, termine coniato in quegli anni dal sociologo e filosofo francese.

Tuttavia, lungi dal rappresentare una prassi assoluta, il metodo della squadra è ad oggi quello che più di altri può garantire la sopravvivenza di sistemi con un’articolazione complessa.

Per riprendere la metafora calcistica, tutte le aziende vorrebbero disporre di una formazione con undici Ronaldo o Messi, ma sappiamo che ciò è impossibile. In ogni squadra aziendale ci saranno dei fuoriclasse che potranno fare la differenza solo se supportati da collaboratori, sicuramente meno abili, ma capaci di dare il loro meglio in qualsiasi condizione.

Perché quando le cose vanno bene è facile apparire tutti come dei fenomeni. È quando le condizioni sono avverse che è necessario conoscere bene il proprio ruolo e, se del caso, andare a supportare un collega in difficoltà. Il fine ultimo non è quello di fare incetta di medaglie alla Muttley per pavoneggiarsi di fronte agli altri, ma vedere il centro dell’obiettivo come un risultato collettivo.

Criticare o giudicare?

Perché ciò sia possibile, è fondamentale che sia chiara a tutti i componenti della squadra la differenza fra criticare e giudicare.

La critica può essere solo costruttiva (“hai sbagliato, ma hai le capacità per fare meglio”), mentre il giudizio è inevitabilmente distruttivo (“sei sempre il solito, non ne azzecchi mai una”).

È questa la ragione per cui nella squadra, a fronte di un problema, la prima cosa che viene in mente è cercare di risolverlo, anziché dare la caccia al responsabile che potrebbe averlo causato.

Il perché, il come e, solo alla fine, il cosa

Le persone ricercano la conferma delle loro capacità nelle parole degli altri. Non a caso Maslow, nella sua piramide dei bisogni, pone la stima immediatamente prima dell’auto-realizzazione a testimoniare come siano importanti, da un lato, l’affiatamento collaborativo e, dall’altro, la coincidenza dei propri valori con quelli aziendali.

I nostri antenati, seduti attorno al fuoco, si raccontavano storie che facevano pulsare i loro cuori. In quelle narrazioni c’era la ragione del loro esistere e perché ognuno era fondamentale nel far girare gli ingranaggi della storia.

Di seguito, ciascun individuo, cacciatore o raccoglitore, avrebbe trovato naturale come ispirare gli altri e metterli nella condizione di realizzare quelle cose per cui erano preposti. Continuamente, da millenni.

Foto di sethikcsethi

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Perché il tiro alla fune non è uno sport che fa bene alle aziende?
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Perché il tiro alla fune non è uno sport che fa bene alle aziende?
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Le aziende pullulano di immagini dall'intento motivazionale. Purtroppo, alcune di queste non ci azzeccano per niente.
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Sergio Gridelli Blog
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Categorie: Coaching

Di Sergio Gridelli

Sono nato e vivo a Savignano sul Rubicone (FC), una piccola città della Romagna attraversata dal fiume che segnò i destini di Roma. PERCHÉ LO FACCIO Ho sempre pensato che l’impronta di ciascuno di noi dipenda da un miscuglio di personalità e di tecnica. Se questi due ingredienti sono in equilibrio nasce uno stile di comunicazione unico, subito riconoscibile fra tutti gli altri. Perché in un mondo tutto marrone, una Mucca Viola si vede eccome! COME LO FACCIO Aiuto le persone a trovare le motivazioni che le rendono uniche. Non vendo il pane, vendo il lievito. COSA FACCIO Mi occupo di comunicazione aziendale e della elaborazione di contenuti per il web. Curo i profili social di aziende e professionisti. Tengo corsi sulla comunicazione interpersonale, il public speaking, il marketing digitale e su come realizzare presentazioni multimediali efficaci.

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