Vuoi per la correlazione diretta o per la necessità di trovare nuove forme di flessibilità più al passo con i tempi, l’emergenza pandemica e il lavoro continuano a dominare il dibattito di questi mesi.
Da un lato, c’è chi invoca un ritorno alla “normalità” del lavoro (come se niente fosse successo) e, dall’altro, ci sono i sostenitori della necessità di adottare la modalità remota in tutti gli impieghi che possono consentirla.
Nel primo caso, si adducono motivazioni che vanno dalla difficoltà di separare i tempi del lavoro da quelli della vita privata alla compromissione sociale e psicologica della relazione comunitaria del lavoratore.
Nel secondo caso, invece, si accampano tutta una serie di benefici che fanno perno sulla riduzione del traffico (con conseguente abbattimento delle emissioni inquinanti e la migliore efficienza del trasporto pubblico) e un sensibile risparmio in termini di occupazione degli spazi fisici.
Per quanto mi riguarda, da tempo sono convinto che si imporrà naturalmente una sorta di ibridizzazione fra le due posizioni, ma di sicuro nulla potrà più ritornare come “ai bei tempi andati”. E non solo per quanto concerne le occupazioni.
Come tutti (o quasi), ho trascorso questi due anni praticamente davanti allo schermo del computer e, credo come molti, anch’io non vedo l’ora di ritornare “in aula”. Sì, mi sono mancati il contatto, il feedback (praticamente assente online) e quelle due ore giornaliere di pendolarismo che, fra un ritardo e l’altro, mi davano l’occasione per osservare il campionario di varia umanità che affolla le stazioni e i treni.
Tutte condizioni che prima o poi ritorneranno, insieme alla grande opportunità di poter ampliare la platea dei corsi di formazione grazie alle procedure di collegamento digitale.
Se queste sono le argomentazioni “alte”, in un senso e nell’altro, forse per vergogna, pochi hanno posto l’accento sugli aspetti più pratici del lavorare da casa. Ovvero, quei piccoli vantaggi che gran parte di noi hanno apprezzato e che nessuno ha avuto il coraggio di confessare.
È giunto il momento di farlo.
Quante volte siamo usciti di casa con l’abbigliamento sbagliato? Non nel senso di andare a tenere una lezione in una scuola con lo smoking da cerimonia, ma quando arriva il diluvio universale, le temperature si abbassano repentinamente, e noi non possiamo far altro che affrontare la tormenta con la nostra camicia di lino.
Saggezza avrebbe voluto che potevamo vestirci “a cipolla”, ma volete mettere la comodità di percorrere il corridoio e cambiarci d’abito all’evenienza? Se si lavora da casa, evitare di pensare (e di programmare) cosa indossare si traduce in tutto tempo risparmiato.
Le scarpe
Alla fine della giornata, quante volte non vedevamo l’ora di arrivare a casa per toglierci le scarpe, pregustando il sollievo che avremmo provato?
A meno di sganciamenti imprevisti della webcam, sotto la scrivania possiamo starcene comodamente in ciabatte e, d’estate, addirittura a piedi scalzi a contatto con il pavimento. Un plus difficilmente replicabile in ufficio o in un’aula.
La toilette
Quando ero piccolo, al prezzo di una notevole sofferenza, preferivo di gran lunga “portarmela a casa”. Con i bagni della scuola non ho mai avuto molto feeling.
Da adulto, e a maggior ragione in questo periodo “contagioso”, a meno di necessità impellenti, cerco sempre di evitare le toilette pubbliche.
Lavorare da casa significa anche usufruire del proprio bagno domestico e sapere esattamente cosa aspettarsi. Non dobbiamo imprecare perché manca la carta igienica, per la tavoletta impraticabile, per gli afrori che abbatterebbero anche un bue.
E tutto il resto
È vero, la pausa pranzo, al netto delle pietanze che spesso sanno di plastica, è uno degli aspetti conviviali cui difficilmente riusciremo a rinunciare. Ma anche mangiare con addosso i calzoni del pigiama è un’esperienza che non ha prezzo.
Foto di Vlada Karpovich