Tutte le organizzazioni comunicano, ma solo quelle che lo sanno fare bene vincono. E di solito non sono le aziende del “che ci vorrà mai per scrivere due righe?”. E già, perché non è sufficiente saper mettere insieme delle parole (più o meno grammaticalmente corrette) per fare la differenza.
A trasformare il pensiero nella sua realtà immediata, ovvero il linguaggio, siamo capaci tutti. Purtroppo, ciò che molto spesso ci manca è la “consapevolezza del comunicare”.
Il linguaggio, millenni prima dell’avvento del digitale e della fotografia, ha consentito agli esseri umani di (ri)costruire mondi, di determinare stati d’animo, di rendere vivido “il ritorno del morto” di Roland Barthes. Di conseguenza, prima ancora del “cosa” comunichiamo, viene sempre il “come” lo esprimiamo e, soprattutto, il “perché” lo stiamo facendo.
Conosciamo sempre il motivo per cui stiamo comunicando?
Quelle rare volte che ci succede di osservarci dall’esterno, constatiamo lo smarrimento del “perché” siamo impegnati in quella specifica conversazione. “Perché sto parlando?”, “Qual è lo scopo?”, “Cosa voglio ottenere?”, sono tutti interrogativi che se non trovano una risposta ovvia ci devono far riflettere.
Se ci facciamo caso, sono proprio i dialoghi dove il motivo non è chiaro che lasciano campo aperto alle incomprensioni, agli equivoci, alle interpretazioni.
Specie in contesti relazionali professionali è fondamentale partire da una condizione essenziale: “Perché ha senso che questo dialogo abbia luogo?”.
Scriviamo o parliamo?
Molte aziende quando devono comunicare delle cattive informazioni (richiami, licenziamenti, chiusure), si affidano alla “scappatoia” delle email o delle messaggistiche istantanee.
In questi casi, ci siamo mai chiesti cosa pensano i destinatari di quelle “moderne” missive? Uno, l’azienda è un’ipocrita; due, l’azienda è interessata solo ai profitti; tre, all’azienda delle persone non interessa niente. Insomma, tutti giudizi che non depongono a favore della reputazione di quell’organizzazione.
Invece, è proprio quando il contenuto emotivo della comunicazione è elevato, che è necessario “metterci la faccia”.
Certo, a tutti piacerebbe dare solo delle “buone notizie”, ma la realtà ci costringe anche ad assumerci delle gravi responsabilità. È in questi frangenti che si capisce se l’azienda ha un cuore. Che batte.
Allora, quando invece è opportuno comunicare in forma scritta? Essenzialmente, in due casi:
- descrizione di procedure operative (verba volant…)
- informazioni di carattere generale che interessano un gran numero di collaboratori e/o dipendenti
Vediamo l’invisibile solo quando ascoltiamo
Tutte le volte che parliamo, diciamo solo quello che sappiamo già. Mentre è quando ascoltiamo che abbiamo l’occasione di imparare cose nuove. In sostanza, chi parla fornisce informazioni, chi ascolta riceve informazioni. Non è difficile comprendere chi si arricchisce nello scambio.
Il problema è chi ci piace moltissimo “dominare” le conversazioni e per questo focalizziamo tutta la nostra attenzione sul cercare di rispondere (infatti siamo anche molto rapidi a interrompere l’esposizione dell’interlocutore), anziché sul prodigarci a capire.
L’unico modo per uscire da questo cortocircuito è renderci conto che fondamentalmente la comunicazione non riguarda noi, ma l’altra persona.
Un esperimento interessante, che tutti possiamo fare, è misurare in un giorno quanto tempo parliamo e quanto invece ascoltiamo. Ovviamente, mi riferisco all’ascolto attivo che, per semplificare, si traduce nell’accettazione di un punto di vista diverso dal nostro.
Non azzardo se dico che la gran parte di noi cadrà (o è già caduta) nella trappola di ritenere il parlare più a lungo e, a volte, anche più forte, l’unica arma per dimostrare di possedere una conoscenza superiore (spesso confusa con l’intelligenza).
Un celebre aforisma, attribuito a Oscar Wilde, ci mette in guardia senza mezzi termini: “A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio”.
Tuttavia, non sto consigliando di andare a fare scena muta in tutte le riunioni, ma di solito si verifica l’esatto contrario: parliamo senza pensarci più di tanto, per il solo motivo di dimostrare la nostra “superiorità”, pur non disponendo di tutte le informazioni per intervenire in maniera puntuale, e così ci precipitiamo in ipotesi come minimo avventate.
Senza dimenticare che, alla prova dei fatti, finiamo sempre per dire le stesse cose, gli stessi aneddoti, le stesse battute. Del resto, se ci dimentichiamo di avere le orecchie il nostro repertorio finisce alla svelta. E non c’è niente di più stucchevole dell’amministratore delegato che ripete da anni la stessa storiellina (che entusiasma solo lui).
Abbiamo attorno un sacco di gente invisibile. Persone che lavorano con noi e che non vediamo più (o non abbiamo mai visto), per il semplice fatto che non le abbiamo mai veramente ascoltate.
Kant, che sulle condizioni del conoscere se ne intendeva, aveva già indicato la strada: “Agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.
Allora, cominciamo a regalare alle persone qualcosa di davvero prezioso: il nostro ascolto. Quel dono creerà un legame e da quel legame nascerà una relazione inedita che arricchirà noi e quelle persone. Da quel giorno, la nostra (mai aggettivo possessivo potrà essere più preciso) azienda varrà molto di più.